2 novembre 2008

Il passaggio dalla vita alla morte e l'ingresso in paradiso nell'iconografia cristiana dei primi secoli (Osservatore Romano)


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Il passaggio dalla vita alla morte e l'ingresso in paradiso nell'iconografia cristiana dei primi secoli

Quel limite infranto tra la terra e il cielo

di Fabrizio Bisconti

Durante i primi secoli del cristianesimo e, segnatamente, tra il ii e il iii, quando nasce un'arte propriamente cristiana in tutto il mondo antico, non viene immediatamente inventato un immaginario nuovo e autonomo rispetto alla cultura figurativa profana coeva e precedente. Molte immagini, scene e situazioni figurative recuperano schemi e temi già sperimentati dalla civiltà iconografica del passato, denunciando una continuità artistica, che, però, prevede un ricarico semantico rinnovato e aderente alla nuova dottrina.
In quest'ottica mentre da un lato sorge un repertorio direttamente ispirato alla Bibbia - pronto ad accogliere il messaggio delle due economie testamentarie per mezzo di pure rievocazioni degli episodi della salvezza così come si dipana tra il Vecchio e il Nuovo Testamento - dall'altro lato non muore il tradizionale riferimento al vissuto quotidiano dei cristiani ordinari e alla societas christiana della prima ora.
Il duplice binario, parallelo e talora giustapposto, dà luogo a un immaginario iconografico misto, dove la componente religiosa si associa, in maniera armonica e coerente, alla storia privata dei singoli componenti delle comunità cristiane più antiche.
Questo sentimento della concordia tra le sofisticate idee religiose elaborate dai Padri della Chiesa e il pensiero semplice degli uomini convertiti al cristianesimo, ci immette in un mondo funerario estremamente compromesso, per i primi tempi, con quel naturale e lento divenire delle usanze e dei riti provenienti dalla civiltà romana. Proprio i romani, d'altra parte, affidarono una particolare importanza a tutti quei gesti intimamente legati al momento della morte, alla sistemazione dei corpi dei defunti, alle feste e alle commemorazioni funebri, recuperando le credenze e i riti dalle culture preromane. Tali usanze, come è noto, si muovono attorno all'orbita di una tensione comune che prevede la "sopravvivenza" del defunto oltre la tappa traumatica della morte. Anzi, nella cultura romana, nacque ben presto la credenza di un naturale prolungamento della vita per tutti i trapassati, secondo quanto assicurano Cicerone (Tusculanae disputationes i, 16, 36) e Virgilio (Eneide, vi, 743).
Nella prassi funeraria romana si diffuse, per questo, l'usanza di un'immediata sepoltura dei morti, per assicurare una serena vita nell'aldilà e per evitare che le anime dei trapassati vagassero, in attesa della tumulazione. Nacquero, così, i collegia funerari, che si preoccuparono di sostenere l'onere economico per la sepoltura di coloro che non potevano permettersi un dignitoso funerale. Questo permetteva anche che i defunti non stazionassero nell'abitato, nel perfetto ossequio di una legge delle Dodici Tavole che prescriveva che: hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito. Tale legge induceva a svolgere tutte le pratiche funerarie, sia per quanto riguarda l'inumazione, sia per quel che attiene all'incinerazione, fuori dalle mura urbiche.
La ritualità funeraria romana comportava una sequenza di gesti che, in parte, si sono protratti nel tempo, come il bacio estremo al defunto, la chiusura degli occhi, la conclamatio, ossia il richiamo ad alta voce del nome del defunto per verificarne la morte, la sistemazione del cadavere, la vestizione, la coronazione, la consegna di una moneta - il cosiddetto obolo di Caronte per accedere nell'oltremondo - l'esposizione del corpo, le esequie, con il relativo seppellimento, che si svolgeva, assai spesso, notte tempo.
Con l'avvento del cristianesimo, al rito dell'incinerazione, tanto amata dai romani, in quanto collegata alla eroizzazione del defunto, si sostituì quello dell'inumazione, già noto, ma meno diffuso per questioni di spazio e di economia. I cimiteri cristiani, meglio noti come catacombe, raccolsero, sin dagli esordi del iii secolo, intere comunità cristiane, specialmente a Roma, ma anche in altri centri dell'Italia centrale, meridionale e insulare, dove il sistema delle sepolture in ambienti ipogei e la moltiplicazione dei sepolcri - che raggiunsero in certi casi decine di migliaia di unità - caratterizzarono un nuovo approccio con la ritualità funeraria e con il sentimento religioso, che si incentrò, come è intuitivo, sul mistero fondamentale della resurrezione della carne.
La grande rivoluzione del pensiero religioso influì sicuramente sulla creazione di queste enormi città della morte o meglio in questi dormitori provvisori, dove i fratelli della fede attendevano fiduciosi la resurrezione. Se, da un lato, le catacombe mantennero uno stile sobrio ed essenziale nell'allestimento delle sepolture volutamente tutte uguali, con qualche rara eccezione riservata alle sepolture privilegiate dei potentiores e di alcuni ecclesiastici, dall'altro, vogliono esprimere un forte e insopprimibile spirito comunitario.
Le catacombe rappresentano il luogo naturale dell'attività dei fossores, ai quali spettano la progettazione, lo scavo, la decorazione e la gestione dell'area sepolcrale. La figura del fossor assurge, insomma, a vero e proprio genius loci dei cimiteri paleocristiani e viene anche definito arenarius, in quanto scavatore di gallerie nelle cave arenarie, vespillo, lectiarius, copiatae ed entra nella gerarchia della chiesa locale, inserendosi nella dinamica associativa delle corporazioni. Il potere assunto dai fossori, specialmente in relazione alla compravendita delle sepolture, indusse nel corso del v secolo, a riconsegnare questa fruttuosa attività ai mansionarii, ai cubicularii e ai presbyteri.
Proprio per il diagramma che il ruolo dei fossori disegna nella carta sociale delle prime comunità cristiane, questi furono tra i primi a essere rappresentati in pittura e nelle incisioni sulle lastre funerarie delle catacombe romane, ora intenti a scavare le gallerie, ora occupati alla sistemazione del corpo dei defunti, ora in posa autorappresentativa, per dimostrare il loro rango, raggiunto nell'ambito della struttura della Chiesa primitiva. Queste semplici rappresentazioni oscillano tra l'iconografia del vissuto quotidiano, a cui ci si riferiva in apertura, e un intento figurativo di tipo simbolico, quando si vuole attribuire alle loro immagini, già nel cuore delle catacombe di San Callisto, nelle cosiddette cappelle dei sacramenti, riferibili alla prima metà del iii secolo, un significato più sofisticato, che attinge proprio a quel senso di guardiano eccezionale del sito cimiteriale, a cui si alludeva, ossia al ruolo di genius loci delle catacombe.
Ben presto, accanto alle figure dei fossori, appaiono le immagini dei defunti ordinari, per lo più isolati e atteggiati nel significativo gesto dell'expansis manibus, che vuole sollevare i cristiani dei primi secoli in una condizione beatifica e paradisiaca. L'atteggiamento dell'orante, attribuito alla maggior parte dei defunti, rappresentati in pittura, in scultura e nelle incisioni funerarie non vuole significare una tensione verso la salvezza, ma uno status positivo, che comporta l'idea di un percorso già tracciato, che ha condotto il defunto fino alla salvezza finale. Per questo motivo l'atteggiamento delle braccia sollevate interessa, in queste prime rappresentazioni, tanto i semplici defunti quanto i protagonisti degli episodi veterotestamentari, che hanno superato diluvi, condanne ad bestias, insidie, violenze, pericoli e prove di ogni tipo. Sollevare le braccia e aprire le palme delle mani significa esprimere quel concetto della preghiera continua che, per il cristiano, non finisce in terra, ma perdura anche nell'aldilà e che si era iniziata con il battesimo: da quel momento, l'uomo, coerente con le sue promesse e fedele al consiglio di Paolo (i Tessalonicesi, 5, 17) canta incessantemente, senza mai interrompersi, la gloria di Dio.
Accanto a queste rappresentazioni ispirate, compaiono raffigurazioni più tradizionali che "fotografano" i defunti mentre svolgono la loro attività professionale di fabbri, fornai, macellai, pescivendoli, ortolani, come per ricordare la loro condizione terrena, secondo un uso e una mentalità che non si differenzia da quella profana. A questo riguardo ci aiuta Tertulliano, quando si interroga sul motivo delle persecuzioni nei confronti dei cristiani, se, in realtà, essi frequentavano gli stessi fori dei pagani, lavoravano negli stessi mercati, negli stessi negozi, nelle stesse officine, praticavano le stesse arti, navigavano e combattevano insieme a loro (Apologetico, 42, 2-3).
Ancora nel solco della tradizione ellenistica e romana dobbiamo collocare le rappresentazioni dei defunti più prevedibili, ossia quelle che si preoccupano di riprodurre, nel dettaglio, i ritratti dei personaggi, ora scegliendo l'antico espediente della imago clipeata, ora sistemando la figura intera tra due introduttori, che spesso si identificavano con i principi degli Apostoli, ora rappresentandoli in vere e proprie "foto di famiglia".
Ma i defunti sono calati in situazioni figurative anche più complesse, come quando divengono protagonisti dei banchetti. Nelle scene di convito coesistono i sensi di diversi banchetti, non solo quelli funerari, come si tenta di affermare da più parti in tempi recenti, ricollegando l'immagine alle agapi e ai refrigeria, per scorgervi, dunque, un riflesso immediato di pratiche quotidiane e reali. Nei banchetti dipinti nelle catacombe romane, così come in quelli scolpiti sui coperchi dei sarcofagi, è possibile individuare gran parte dei modelli iconografici e dei significati simbolici creati dalla cultura figurativa precedente, anche se l'accezione cristiana, in chiave rituale e simbolica, prevale ed emerge sugli altri temi. Le scene di banchetto riecheggiano, innanzi tutto, gli antichi pranzi funerari classici ed ellenistici, di memoria omerica, che comportavano sacrifici, pranzi veri e propri e ludi in onore del defunto: dal silicernium, che si teneva dopo la sepoltura, al novemdial che, nove giorni dopo la tumulazione, segnava il ritorno della famiglia nella società, sino ai più noti banchetti tenuti durante i parentalia e, segnatamente, a quello che si organizzava il 22 febbraio (caracognatio), un convito solenne, che si svolgeva presso il sepolcro a cui partecipavano solo i parenti del defunto, i quali, in quell'occasione, potevano ricomporre i malumori familiari, approfittando del clima affettuoso che si veniva a creare.
A questi banchetti e all'atmosfera di amicizia e concordia, declinata in senso spirituale dai cristiani, sembrano ispirarsi direttamente le scene delle catacombe romane, ma questa continuità è solo apparente e non serve, da sola, a spiegare la grande fortuna del tema nel repertorio cristiano. Occorre ricordare che, per i romani, quella dei parentalia non era l'unica occasione per pranzare in onore dei defunti: durante i rosalia e i violarla, feste primaverili ed estive, si svolgevano altri banchetti e già, tra i pagani, anche se eccezionalmente, si pranzò nella ricorrenza del giorno anniversario dello scomparso. Si deve, poi, distinguere, in tali conviti, una componente evergetica, che proveniva dalla tradizione ellenistica e che, per la solennità e l'aspetto pubblico, riferisce l'intenzione di fissare la memoria del defunto in senso civico e storico e una componente familiare, che esprime il desiderio di descrivere il ruolo del congiunto nell'ambito del gruppo sociale di appartenenza. Le due componenti sembrano perdurare nell'immaginario figurativo paleocristiano in maniera talora ben distinta se, come sembra, prevale l'aspetto evergetico nelle rappresentazioni multiple contornate da cesti colmi di pani, mentre predomina quello familiare nelle scene affrescate, con vivacità gestuale e rari tocchi d'ambiente, nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro. Ma anche in queste scene, eccessivamente alleggerite dalla critica moderna di ogni carica simbolica, dobbiamo leggere meglio la stratificazione dei significati. Se, infatti, alcune scene presentano chiari riferimenti a un pasto funerario organizzato per o dalla famiglia del defunto, con cenni reali che riflettono pratiche e rituali sepolcrali concreti, la ieraticità di alcune immagini e l'atmosfera che si respira intorno ad altre ci sollevano verso un livello eminentemente simbolico. Nella lastra incisa di Criste in Domitilla, ad esempio, la piccola defunta, collocata in paradiso con pochi ma efficaci espedienti - colombe noetiche, atteggiamento expansis manibus - è commemorata dal padre Cristor che si raffigura bevendo e offrendo l'ultimo boccone del pasto a un cagnolino, forse molto caro alla padroncina.
Proprio la catacomba di Domitilla ci permette di agganciare l'antica commemorazione dei defunti nella cultura paleocristiana con quella spontanea e urgente riservata, negli stessi secoli, ai santi che, in quei primi momenti, si identificano specialmente con i martiri. In un affresco del complesso di Domitilla, sulla via Ardeatina, e, segnatamente, nella lunetta di un arcosolio non lontano dalla basilica dei santi Nereo e Achilleo, la matrona Veneranda viene rappresentata mentre viene introdotta in un giardino paradisiaco dalla martire Petronilla, che godeva di fama e culto estremamente diffusi in ambiente romano. L'introduzione - che comporta un confortante gesto di incoraggiamento da parte della santa, che poggia la mano sulla spalla della defunta - avviene in un'atmosfera di grande confidenza, recuperando i rassicuranti atteggiamenti delle antiche introduzioni in paradiso e annunciando gli ingressi monumentali e ufficiali dei catini absidali romani, come accade, ad esempio, in quello protobizantino della basilica romana dei santi Cosma e Damiano, dove i due santi medici sono accompagnati al cospetto del Salvatore dai principi degli Apostoli.
Tra martiri e defunti si stabilisce una sorta di religio amicitiae, di rapporto inter pares, che qualifica i santi come patroni, intercessori e protettori: essere vicino a loro, essere rappresentati in loro compagnia, significa rompere quel limite tra terra e cielo, ancora ben percettibile nella mentalità comune del tempo. L'arte delle catacombe esprime l'abbattimento di questa barriera, mettendo in diretto contatto i defunti con il martire, in un rapporto protetto-patrono, che ben riflette nell'iconografia quanto succede attorno alle tombe dei santi all'interno delle catacombe.
Nei pressi di questi sepolcri eccellenti, infatti, vuole essere sepolto un numero elevato di defunti, creando quei retro-sanctos, che vorrebbero riprodurre il concetto della comunione dei santi e l'eloquente formula epigrafica in pace cum sanctis che caratterizza molti epitaffi paleocristiani del iv secolo dell'era cristiana. Dopo un lungo periodo in cui la rappresentazione dei martiri viene evitata per non affrontare il delicato momento della loro morte violenta, ecco che - con la pace della Chiesa e specialmente nella seconda metà del iv secolo, in corrispondenza con il pontificato di Papa Damaso (366-384) - spuntano le immagini di questi uomini santi. Essi vengono rappresentati come filosofi, intellettuali, saggi, spesso muniti della corona trionfale del martirio, atteggiati secondo gesti solenni ed enfatici, con volti ieratici, ma rassicuranti. La loro fisionomia, il loro vestiario, costituito semplicemente dalla tunica e dal pallio, non è diverso da quello dei personaggi biblici, dei patriarchi, dei filosofi, ma anche degli apostoli e del Cristo. Le loro immagini appaiono negli oscuri itinera ad sanctos che, nei labirinti bui e oramai abbandonati delle catacombe romane, conducono i pellegrini del medioevo verso le tombe sante, semplici, ma estremamente venerate, come dimostrano le centinaia di graffiti lasciati dai devoti lungo le pareti di quelle strade sotterranee della fede.
Mentre ai nostri giorni le commemorazioni dei santi e dei defunti si susseguono a distanza di un giorno, nell'antichità le loro figure, prima distinte e poco definite, si uniscono in un destino comune, che vede i defunti "eccellenti" e quelli "ordinari" disposti fianco a fianco, come per anticipare quella resurrezione finale che rompe tutte le barriere sociali e le categorie religiose e che riconduce alla nostra mente le semplici ed emozionanti parole di Lattanzio, quando descrive la società cristiana dei primi secoli: "Tra noi non ci sono né servi né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli se non perché ci consideriamo tutti uguali" (Divinae institutiones, 5, 15).

(©L'Osservatore Romano - 1 novembre 2008)

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