5 settembre 2008

Preghiera e digiuno: non siete soli. Oggi solidarietà della Chiesa italiana ai cristiani d’India perseguitati


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Preghiera e digiuno: non siete soli

Oggi solidarietà della Chiesa italiana ai cristiani d’India perseguitati

DA ROMA MIMMO MUOLO

È il momento della preghiera e del digiuno in segno di solida­rietà verso i cristiani dell’India. Un raccoglimento orante che acco­muna tutte le regioni d’Italia e che è i­dealmente guidato dalla beata Madre Teresa di Calcutta, di cui proprio og­gi, nel giorno in cui si ricorda l’undi­cesimo anniversario della morte, ri­corre la memoria liturgica. Le diocesi italiane, gruppi associazioni e movi­menti hanno raccolto prontamente l’invito della Presidenza della Cei. E questo 5 settembre è diventata una data a suo modo memorabile nel ca­lendario ecclesiale del 2008. Un segno di vicinanza spirituale e materiale in­sieme, un messaggio lanciato attra­verso i continenti, oltre che una ri­sposta all’appello formulato a suo tempo da Benedetto XVI. In sostanza, il messaggio dice ai cristiani del gran­de Paese asiatico: «Non siete soli». E condannando «con fermezza ogni at­tacco alla vita umana», esorta tutta­via «alla ricerca della concordia e del­la pace», come ribadiva anche il co­municato della Cei, diffuso lo scorso 1° settembre.
Per tutta la giornata di ieri si sono mol­tiplicate le adesioni alla preghiera e al digiuno odierni. Molte le diocesi che hanno diffuso avvisi e comunicati stampa. Da Bergamo a Taranto, da Termoli-Larino nel Molise, a Piazza Armerina in Sicilia. Monsignor Beni­gno Papa, arcivescovo della città ioni­ca pugliese ha espressamente invita­to i parroci a organizzare «momenti di preghiera e di adorazione eucaristica per sostenere questi nostri fratelli du­ramente provati». «La preghiera – ha scritto monsignor Gianfranco De Lu­ca in un messaggio alla sua diocesi di Termoli-Larino – è il luogo in cui i cri­stiani offrono al Signore le gioie e le sofferenze, le serenità e le fatiche del­la vita quotidiana. Pregare, inoltre, al­larga l’orizzonte del cuore, regalan­doci una visione pacifica della vita». Piena adesione anche da parte di monsignor Roberto Amadei, vescovo di Bergamo, e di monsignor Michele Pennisi (Piazza Armerina). Adesioni che vanno ad aggiungersi alla lista del­le diocesi che già nei giorni precedenti avevano raccolto l’invito della Presi­denza della Cei. «Dalla Chiesa di Ro­ma– ha scritto il cardinale vicario A­gostino Vallini – si alzerà un’implora­zione al Signore che accompagni e so­stenga i cristiani indiani in questo tempo di sofferenza». E lo stesso av­verrà questa sera a Milano, dove la diocesi ha aderito all’iniziativa di pre­ghiera promossa dal Pime, a Trani­Barletta-Bisceglie e in numerose altre Chiese locali.
Tra le aggregazioni laicali, ieri è giun­ta l’adesione dell’Azione Cattolica, che in un comunicato segnala con «preoccupazione una diffusa indiffe­renza dei media nel raccontare e de­nunciare questa ondata di persecu­zione ora in India, ma anche nei con­fronti dei cristiani del Darfur, dell’Iraq e di altre regioni del mondo».
Si raccoglierà in preghiera anche l’Associazione Comunità Papa Gio­vanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, «per implorare dal Cielo l’im­mediata cessazione di tutti gli atti di violenza contro i cristiani in India». Mentre a mezzogiorno, nella sede nazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre a Roma, verrà celebrata una Messa.
Raccoglimento e digiuno anche da parte delle 50 associazioni nazionali e dagli oltre tre milioni di famiglie del Forum e dal Copercom, il coordina­mento delle associazioni per la co­municazione, invitate ad amplificare con i propri mass media «il grido di questi nostri fratelli». Aderisce alla Giornata anche il settimanale Fami­glia
Cristiana, mentre sul sito inter­net di Piùvoce.net Cattolici in rete si ricorda: «Pregare e digiunare per i cri­stiani dell’India è una scommessa su un mondo libero in cui nessuno usi la religione come un’arma da brandire contro l’altro».
Numerose, infine, le adesioni da par­te di esponenti del mondo istituzio­nale e politico. Tra gli altri il ministro delle Politiche Europee, Andrea Ron­chi, il vice presidente del Senato, Van­nino Chiti e il sindaco di Roma, Gian­ni Alemanno.

© Copyright Avvenire, 5 settembre 2008

Quaranta monache tutti i giorni ricordano i martiri

DI VIVIANA DALOISO

Per i cristiani persegui­tati, nel monastero Valserena di Guardistallo, si prega oggi, come si è pregato ieri, come si fa ogni giorno dell’anno. Per la drammatica situazione in In­dia, come per quella in Alge­ria e in Angola. A pochi chi­lometri da Cecina, sulle col­line verdeggianti di un pezzo di Toscana ancora imper­meabile al turismo chiassoso delle coste, di preghiera le monache trappiste vivono trecentosessantacinque gior­ni l’anno: un canto di lode che comincia all’alba, si in­terrompe per il tempo di un respiro, continua durante i pasti, il lavoro nei campi e nel monastero, fino alla sera. E con cui si possono fare gran­di cose. Su tutte, 'lottare' contro la violenza che altro­ve, nel mondo, segna la vita di chi crede nel Vangelo. «La preghiera può farlo – spiega suor Maria Francesca, tra le quaranta sorelle che vivono nel monastero cistercense –, anzi è l’unica risposta effica­ce alla violenza e al male. Nel­la misura in cui ci accorgiamo che dentro di noi c’è una buona parte di violenza, e scegliamo la mitezza evan­gelica, rifiutiamo di rispon­dere alla violenza con la vio­lenza, al male con il male, e così cambiamo il nostro in­terlocutore ultimo, rivolgen­do la nostra domanda di giu­stizia a Dio, e non a chi ci ha offeso».
Pregare per chiedere, reagire, ma anche per essere vicini a chi soffre, dall’altra parte del Pianeta, sotto il peso indici­bile dell’intolleranza: «In que­sto senso alla preghiera si ag­giunge il digiuno – continua suor Maria Francesca –. Pra­ticare il digiuno significa en­trare condizione di solida­rietà con quanti nel mondo soffrono un tipo di mancan­za: chi usa violenza soffre di una mancanza grave di u­manità, chi la subisce viene offeso e umiliato nella sua u­manità.
Il digiuno è uno stru­mento che manifesta visibil­mente, con una forma di sa­crificio, vicinanza a entram­be queste condizioni. È il no­stro modo dire che facciamo parte della stessa umanità bi­sognosa, mancante».
Nel monastero di Guardistel­lo, i cristiani perseguitati per la fede vengono ricordati con in modi specifici: con inten­zioni di preghiera, recita di rosari dedicati, liturgie e pa­raliturgie. La tragedia dell’O­rissa ha toccato le suore da vicino: c’è una comunità ci­stercense in India, e anche u­na in Angola, dove le mona­che si sono stabilite da trent’anni ormai, ma dove non sono ancora riuscite a costruire una casa, un vero monastero, a causa della drammatica situazione loca­le. Il primo giorno di gennaio, nel monastero Valserena, vie­ne esposto il martirologio dell’anno precedente: da al­lora al termine di ogni pran­zo viene ricordato un marti­re, raccontata la sua storia, le circostanze in cui è stato uc­ciso. Ogni giorno la memoria di un fratello: «Quest’anno abbiamo finito soltanto a feb­braio, visto l’elenco lunghis­simo dei cristiani uccisi l’an­no scorso», ricorda suor Ma­ria Francesca. Sessanta gior­ni, sessanta morti: un tempo e un dolore infiniti.
Come credere nel valore di questa preghiera? Come è possibile che questa pre­ghiera possa concretamente aiutare chi soffre? «Si crede – continua suor Maria France­sca – nella misura in cui si prega tutti insieme, come co­munità e come Chiesa. E si crede nella misura in cui sap­piamo, e siamo tutti coscien­ti, che nel prendere la nostra parte di Croce poniamo dal­le nostre mani, impotenti, la nostra preghiera nelle mani di Dio. Questo passaggio si chiama 'fede' e rende la no­stra preghiera la più concre­ta e potente delle azioni che possiamo compiere. Oggi. E ogni giorno».

© Copyright Avvenire, 5 settembre 2008

Orissa, ancora raid Il premier si muove

Paura nello slum di Salkia Sahi: «Minacce via Sms» Il governo promette più rinforzi, 200 arrestati e 2 feriti

DA NEW DELHI

Il primo ministro indiano Manmohan Sin­gh ha promesso di usare la forza per met­tere fine all’ondata di violenze anti- cri­stiane che ha fatto oltre venti morti e migliaia di sfollati. In una lettera ai Missionari della Ca­rità di Madre Teresa, il premier ha assicurato che New Delhi ha « reso disponibili tutte le for­ze richieste dallo stato di Orissa » , epicentro dei disordini. Singh ha precisato di aver detto al primo ministro dello Stato Navin Patnaik che « deve essere presa ogni misura possibile per ripristinare la normalità e per fornire prote­zione a tutte le comunità » . Circa duecento per­sone sono state arrestate per le violenze. No­nostante queste misure e la richiesta della Cor­te Suprema di inviare altri quattro battaglioni, ieri, ci sono stati altri scontri. Una folla, secon­do la polizia locale, ha attaccato un campo di accoglienza ferendo due cristiani. Altri giornali parlano di 40 feriti. Proprio per evitare nuove tensioni, il governo dell’Orissa ha fatto sapere che vieterà agli estremisti indù di organizzare, domenica, una marcia per trasportare le cene­ri del leader religioso Swami Laxmanananda Saraswati, assassinato da sconosciuti armati il 23 agosto scorso. È stato proprio questo assas­sinio – di cui gli indù accusano i cristiani – a in­nescare l’escalation di violenze.
I bambini sono anche quelli che ri­cordano meglio di tutti. E seppure adesso hanno smesso di sorridere, non si tirano indietro dal ripetere quello che hanno sentito urlare la notte che il loro villaggio e la loro ca­sa sono stati assaltati dalle torme dei fanatici con torce e bastoni di ferro: « Bharat mata ki joy », salvia­mo la madre India. E giù con il fuo­co purificatore e il linciaggio sel­vaggio.
«Siamo arrivati qua in tredici, la mia famiglia e quella di mio fratello. Ap­pena li abbiamo sentiti che attac­cavano, ho preso la moglie e i miei quattro figli e siamo scappati nella foresta. In mezzo agli elefanti, ai serpenti – racconta Saresh Pari­chha, del villaggio di Bhaliapada –. Non torneremo mai più indietro. Non c’è rimasto più nulla. La casa è stata bruciata. Cosa torno a fare. Posso anche ricostruire un tetto, ma la paura non la si cancella facil­mente, neppure l’odio di quella gente. Resta la fede in Cristo, il suo sacrificio ci sostiene. Ma non è fa­cile lo stesso». L’uomo, un impie­gato governativo, sottolinea che la sua è una situazione comune a quella di molti altri, anche se la sua condizione sociale « forse mi ga­rantirà qualcosa di più».
La presenza del bidesi, richiama u­na piccola folla di curiosi, tra cui un gruppo di donne con una com­briccola di pargoli, vengono tutte dal villaggio di Bakinja. Le accom­pagna una donna indù con la clas­sica stria rossa sulla fronte, e sta ac­canto a una ragazza con al collo la medaglietta della « Regina senza peccato originale».
Sono troppo intimidite, le donne, per dire una parola di più che non sia «paura». È altro, però, di cui a­desso hanno bisogno. Un sostegno che permetta a questa gente di ri­cominciare qualcosa, che purtrop­po ancora resta una vita da esclusi. Stiamo per andare via quando so­praggiunge un giovane pastore e­vangelico, si informa su chi siamo e perché facciamo domande alla gente e poi spiega: «Abbiamo pau­ra, le intimidazioni non ci fanno dormire la notte. Arrivano messag­gi sui telefonini: convertitevi o vi uccideremo tutti».

© Copyright Avvenire, 5 settembre 2008

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