1 giugno 2008

Voglia nuova del Rosario. Dentro il respiro di Dio (Marina Corradi)


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Voglia nuova del Rosario. Dentro il respiro di Dio

MARINA CORRADI

Un amico racconta di sua nonna e del suo andare, nelle sere di maggio, a dire il Rosario in cortile con le vicine, dieci donne sedute su una fila di sedie davanti alla cucina.
«Quanto tempo fa ?», domandi tu, immaginando un ricordo vecchio di lustri. Ma no, risponde l’amico, il Rosario mia nonna lo dice nel cortile della sua casa a Lambrate, in queste sere di maggio. Lambrate è quella periferia di Milano sotto la verticale degli aerei che decollano da Linate.
Ogni tre minuti sopra la testa la prua di un jet che si alza rombando. Accanto, le sei corsie della Tangenziale gonfie di traffico incolonnato; sotto, le acque livide del Lambro. Quel quartiere, a vederlo, sembra l’icona grigia di una modernità senza memoria. E che invece – ancora, o di nuovo – ci si dica il Rosario nei cortili, ti stupisce.
È finito ieri maggio, e, al di là della celebrazione del Papa a San Pietro, sui giornali di mese mariano non hai letto.

Eppure, tuttavia, bastava entrare in una chiesa qualunque d’Italia in questi giorni per trovare la sera decine e decine di persone che recitavano l’Ave Maria. Oppure sgranavano quell’antica catena a casa loro, e nei conventi, negli ospedali, a bassa voce, con parole da secoli uguali. Il Rosario continua a essere detto, pianamente, senza clamore, da una massa non piccola, ma mediaticamente invisibile.

I dotti, gli intellettuali guardano con educato compatimento a chi è fedele alla preghiera più umile, a quel ripetere semplice e monotono. Già al pregare, di questi tempi, si guarda come a qualcosa di infantile – non è da uomini moderni inginocchiarsi, e domandare. Ma, poi, la preghiera delle donne e dei vecchi, quel ridire le stesse parole in una cadenza regolare scorrendo lenta fra le mani la corona, pare a molti un gesto desueto in giorni in cui le nostre dita fanno agilmente zapping, mandano sms, digitano email. («Il Rosario – scrisse Romano Guardini appartiene al popolo credente come il lavoro e il pane, ma appena l’uomo cade nell’inquietudine del ragionamento o della vita moderna, ne perde l’abitudine»).

E però l’abitudine non è perduta.
Vive e si trasmette ancora, e non a pochi, benché sia pubblicamente 'invisibile'. È un filo tenace quasi la corona cui per secoli le nostre donne si sono aggrappate come a una fune per non precipitare – quando il marito era al fronte, quando un figlio era malato. Molti di noi ricordano ancora queste donne col Rosario in mano, simbolo di un affetto silenzioso e paziente, senza bisogno di troppe ragioni o parole.

Come aderendo, nella preghiera a quella donna in cui Cristo si fece carne – a quella donna fattasi terra perché Dio si facesse uomo – a un modello diverso dal principio maschile che ci domina: diverso da quel 'fare, produrre, pianificare il mondo e semmai fabbricarlo da sé, senza dover niente a nessuno', come ha scritto Joseph Ratzinger.

A cosa serve, sorridono i sapienti, quel mormorare parole neanche proprie, neanche 'spontanee', ma ricalcare invece i Misteri della vita di Cristo e l’Ave Maria, e invocare 'Regina della Pace', e 'Stella del mattino', in una litania che all’estraneo sembra una automatica nenia?
Non sanno, i dotti, ciò che è chiaro se ascolti i pellegrini a Lourdes, o i poveri che dicono il Rosario in una notte africana assediata da una guerra civile: quelle parole antiche sono insieme invocazione, contemplazione, speranza. Sono un restare, un riposare dentro il respiro di Dio. Come essere presi in braccio, bambini, dalla madre.
Stanchi, trovare misericordia. E poi abbracciati, confortati, riprendere a camminare.

© Copyright Avvenire, 1° giugno 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

Secondo me, chi disprezza il Rosario disprezza l'atto della preghiera, e, conseguentemente, la profondità, l'intima essenza dell'animo umano, il bisogno di consolazione e di amore insito in ogni creatura.