24 giugno 2008

Senza guide e maestri il potere finisce in mano ai pifferai (Osservatore)


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Senza guide e maestri il potere finisce in mano ai pifferai

di Paolo Fornari

Anche se i giornali ne parlano come un fenomeno di costume, la "consulenza filosofica" negli ultimi decenni si è ritagliata uno spazio sempre maggiore nel dibattito pubblico internazionale, presentandosi come la riscoperta di una autentica vocazione socratica.
In Italia se ne fa poca, ma nei paesi di area tedesca e anglosassone la figura del "consulente filosofico" ha una fisionomia già piuttosto delineata. Sta di fatto che il fenomeno ha ormai cessato di essere di nicchia. Basti pensare che sul tema diverse università italiane hanno attivato veri e propri master. Tutto è cominciato nel 1981, quando Gerd Achenbach, filosofo tedesco di Hamelin, ha aperto il primo studio al mondo da professionista della filosofia; da allora il fenomeno si è venuto diffondendo, a cominciare dal Nord-Europa, attraverso il mondo anglosassone, fino in Israele e, alla fine degli anni Novanta anche in Italia e Spagna. Associazioni nazionali, ciascuna con il proprio albo di consulenti accreditati, sono nate in diversi paesi e ogni giorno la letteratura internazionale si arricchisce di nuovi testi sul tema. Diverse sono poi le "pratiche filosofiche" messe in atto: dalla seduta vis a vis alle consulenze on-line, da esperienze filosofiche di gruppo - il dialogo socratico, il café philo, le vacanze filosofiche, etc. - fino al counseling aziendale.
Queste "pratiche" nascono, in primo luogo, dalla convinzione che la vocazione autentica della filosofia sia la cura delle anime; in secondo luogo, da una reazione contro l'onnipervasività delle psicoterapie. Furono queste due molle che spinsero Achenbach ad intraprendere la professione di philosophical counselor. Nella sua ispirazione originaria, la consulenza filosofica assume la forma di un dialogo in cui il "consultante", avvalendosi dello strumentario filosofico, trova in se stesso le risorse per rielaborare riflessivamente una visione del mondo entrata in crisi. Le altre modalità sono, grossomodo, variazioni sul tema. Oggetto del dialogo sono tutte quelle situazioni di disagio - squisitamente esistenziale e non-psichico - che la vita ci pone davanti: la morte, la malattia, l'incapacità di scegliere, una sofferenza affettiva o la mancanza di senso. E la relazione che il counselor instaura con il proprio interlocutore, come già accade nei modelli terapeutici più recenti, è assolutamente "non-direttiva": non si seguono metodologie predefinite, né si danno ricette. Semplicemente, si aiuta l'interlocutore a superare autonomamente la propria impasse esistenziale. Né la si deve confondere con una lezione di filosofia. Il consultante - guai a chiamarlo "cliente", anche se la prestazione deve essere retribuita - non è uno studente, né tantomeno un discepolo, egli è una persona la cui visione del mondo è entrata in crisi e deve essere aiutato - da chi con i procedimenti filosofici ha una certa dimestichezza - a ritrovare la propria strada.
Il fenomeno può essere letto, se non altro, come un segno dei tempi. In una società, in cui la funzione della cura rischia di essere delegata in esclusiva alle procedure tecniche, il maggiore interesse dei profani per la filosofia è quantomeno la spia di un rinnovato bisogno di parola. In quanto essere lògon ekon, dotato di parola, l'uomo non si esaurisce nella sua dimensione organica; e la terapia non può ridursi, come vuole certo pensiero positivista, all'applicazione di procedure materiali. Non basta curare il corpo, ma anche l'anima; e d'altra parte, i pastori di anime lo sanno da tempo. In questo senso, nel crescente interesse dei filosofi per la cura delle anime, si può riconoscere la nostalgia di una parola capace di risanare.
Nei limiti della loro funzione, i filosofi possono dare un contributo a questa sfida, ma non basta riscoprire il potere curativo della parola umana: occorre che tale parola sia anche vera. Il dialogo, in sé, è un contenitore vuoto, una pura forma, il cui contenuto dipende dalle persone in essa coinvolte. Chi si rivolge ad un consulente filosofico può trovarsi di fronte a un nuovo Socrate - il quale, checché ne dicano i suoi lettori postmoderni, aveva qualcosa da dire, e lo diceva chiaramente - come di fronte a un sofista, per il quale una cosa vale l'altra. Ma la ricerca della verità e la sua aprioristica negazione non possono essere considerate "filosofia" allo stesso modo. L'accettazione dell'una o dell'altra prospettiva deciderà di tutto il procedimento, oltre che del senso stesso della parola "filosofia". Per questo, se la consulenza vuol essere "filosofica", non può non domandarsi che cosa sia filosofia e quale rapporto essa abbia con la verità.
Ora, la sola direttiva che sembra emergere dalla maggioranza della letteratura sulla consulenza filosofica è che non esiste una verità; e il consultante deve essere aiutato a trovare la propria. I più accorti si affretteranno a precisare che tale verità deve perlomeno rispettare un principio di coerenza interna, altri fanno tranquillamente a meno dello stesso principio di non contraddizione. Ma se questa è la premessa, la domanda viene spontanea: perché rivolgersi a un filosofo se questi non ha nulla di vero da dire? Perché non rivolgersi ad una persona qualsiasi, dato che un'opinione vale l'altra? Cosa differenzierebbe una consulenza filosofica da una qualsiasi discussione da bar sul senso della vita? O c'è una differenza, e questa deve essere reale; oppure non c'è, ma allora è ciò che chiamiamo "consulenza filosofica" a divenire irreale. E quando è in gioco il senso stesso dell'esistenza, le esperienze di evasione aiutano a poco. È una scoperta vecchia, se già Platone - che, stando a un "classico" della consulenza filosofica, "è meglio del Prozac" (traduzione italiana di Lou Marinoff, Plato, not prozac!, 1999) - metteva in guardia dai sofisti: "Sai a quale pericolo ti esponi, affidando a lui la tua anima?" (Protagora 313 A).
Intendiamoci, non è l'idea della "cura dell'anima" a fare problema, ma l'illusione di poter fare filosofia a prescindere dalla verità, e con ciò aiutare le persone. Questo, sì, è problematico, soprattutto se c'è chi, neanche troppo velatamente, presenta la consulenza filosofica come l'erede della direzione spirituale. E quando si fa causa a un medico che sbaglia diagnosi, ma non ci si chiede che cosa sia buono per la propria anima, si deve quantomeno ammettere di aver smarrito l'orientamento. Se non ci si pone la domanda sulla verità non si potrà offrire alcun servizio autentico; si solleticherà lo spirito, ma senza dare risposte vere. E questa non potrebbe essere altro che la parodia della direzione spirituale, l'ennesimo prodotto di una società che non vuole maestri né pastori, ma è pronta a farsi sedurre dalle melodie del primo pifferaio venuto da Hamelin.

(©L'Osservatore Romano - 23-24 giugno 2008)

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