10 giugno 2008

L'emergenza educativa, la sfida di tramettere ciò che davvero vale (Corradi)


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LA SFIDA DI TRASMETTERE CIÒ CHE DAVVERO VALE

DA QUELLA PIETRA SMOSSA OCCORRE RICOMINCIARE

MARINA CORRADI

La Roma di oggi e l’Occidente, non così diversi da quel mon­do prima della venuta di Cristo descritto da Paolo nella let­tera agli Efesini: un tempo «senza speranza e senza Dio nel mon­do ». Uno dei primi passi del discorso rivolto ieri da Benedetto XVI alla diocesi di Roma è una analisi netta di questo inizio di millennio, che non lascia spazio a pigri ottimismi, o buonismi di maniera.
Già nella Spe salvi il Papa citava quella frase della lettera agli Efesini paragonando l’era precristiana alla moder­nità, ma forse ieri è stato ancora più esplicito. Roma, la città santa duemila anni dopo l’avvento di Cristo, e le nostre città occidentali costellate di millenarie cattedrali, non così lonta­ne – quanto a forma mentis dei loro cittadini – dall’evo anco­ra orfano di Cristo. Quel tempo straordinariamente descritto in un antico epitaffio con queste parole: «Dal nulla nel nulla quanto presto ricadiamo».

Dunque venti secoli dopo, in questa Europa che crebbe sugli scritti dei Padri della Chiesa, in cui la massima espressione del­­l’arte era ispirata e intrisa di cristianesimo, in cui la carità cristiana diede forma alla vita civile, alla assistenza dei malati, alla fami­glia, si assiste quasi a un salto a ritroso della storia, come se, nel­la concretezza quotidiana, altri dei avessero soppiantato Cristo.

È il quadro, ancora, della Spe salvi: della «grande speranza» di­menticata, mentre frotte di modeste speranze vengono inse­guite da uomini educati ad accontentarsi di poco. Educati da pa­dri e madri che a loro volta hanno scordato l’origine autentica, il motore primo del mondo che hanno ereditato. Che con fati­ca e buona volontà tentano di educare i figli, e trasmettere 'va­lori', e spesso si accorgono stranamente di parlare come al nul­la, nel vuoto. Come è possibile – si chiedono in tanti – eppure siamo stati onesti, abbiamo lavorato, perché di tutto questo co­sì poco sembra riuscire a 'passare' ai nostri figli?

«Una grande e ineludibile sfida educativa», ha detto ieri Bene­detto XVI, tornando a indicare di tutte le nostre emergenze la più grave, eppure quella che meno vogliamo vedere. Ma non ha par­lato di 'valori', di quella sorta di buon galateo civico tanto spes­so astrattamente invocato. Ha saltato le buone e volenterose parole dei maestri laici, per andare alla radice di ciò che una generazione di padri non ha più saldo nelle mani, e dunque non può dare ai figli. Ciò che manca è la speranza, la straordi­naria inaudita speranza cristiana: quella che confida nel Dio della vita eterna, quindi in un destino infinito e buono, e non in un nulla spalancato a ingoiarci. Dentro questa speranza, co­me metabolizzata nelle ossa fino a cinquant’anni fa dal popo­lo cristiano, si crescevano i figli in un altro modo. Era una spe­ranza più respirata che appresa: in casa, a tavola, nella faccia di madri e padri. Era la percezione che l’uomo non era – co­me avrebbe detto poi Sartre – dando il marchio al Novecento, «una passione inutile».

La speranza, ha detto il Papa semplicemente, è «Cristo risorto dai morti». Resurrezione senza la quale, come scrisse Paolo, noi cristiani saremmo «i più infelici tra gli uomini». Resurrezione che ha introdotto – è l’espressione del Papa – una «mutazione» nella storia. Tutto è iniziato da quella pietra di sepolcro smossa. Da quello occorre ripartire, a Roma e nelle nostre mille città. Su quella pietra i cristiani cambiarono il mondo. Da quella pietra occorre ricominciare, per rinascere.

© Copyright Avvenire, 10 giugno 2008

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