12 giugno 2008

La parusìa nella "Spe salvi": verso l'incontro con il Giudice (Osservatore Romano)


Vedi anche:

L'ENCICLICA "SPE SALVI": LO SPECIALE DEL BLOG

Il Papa ai vescovi del Bangladesh: "Tolleranza, moderazione e comprensione per promuovere unità e pace"

Lo scrigno più sicuro per i documenti della Santa Sede (Osservatore Romano)

Approvazione definitiva degli statuti del Cammino neocatecumenale (Radio Vaticana e Zenit)

Far conoscere e amare la Parola di Dio per rilanciare missione e dialogo: presentato l'Instrumentum Laboris del Sinodo di ottobre (Radio Vaticana)

CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL’INSTRUMENTUM LABORIS DELLA XII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

Il Papa: “Sono contento di venire in vacanza a Bressanone”

A colloquio con monsignor Paulinus Costa (Bangladesh): "I poveri e il dialogo ecumenico due obiettivi per una testimonianza" (Osservatore Romano)

Dai vescovi l'invito a riscoprire un patrimonio di tutti i discepoli di Cristo: "La Turchia cristiana si prepara all'Anno paolino" (Osservatore)

I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa (Schiavone)

L'arcivescovo Migliore rilancia l'appello del Papa all'Onu: "La libertà religiosa non è la cenerentola dei diritti dell'uomo" (Osservatore Romano)

Successo di pubblico per il nuovo punto vendita della Libreria Editrice Vaticana nel centro storico di Roma (Radio Vaticana)

Il Papa: "Il messaggio di San Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna"

La parusìa nella "Spe salvi"

Verso l'incontro con il Giudice

di Juan Manuel de Prada

"Non continuate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza", ci dice san Paolo (Prima lettera ai Tessalonicesi, 4, 13).
Benedetto XVI ricorre nella Spe salvi a questa citazione per ricordarci che è "elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro". Sappiamo, in effetti, che la nostra vita "non finisce nel vuoto"; e questo è il messaggio che noi cristiani dobbiamo proclamare al mondo continuamente, dinanzi alla propaganda della disperazione che sembra essersi convertita in stendardo della nostra epoca. Una disperazione che, in ultima analisi, nasce dalla sensazione che la vita non vale nulla, al di là di alcuni vantaggi materiali e del godimento di alcuni piaceri perituri; e questa sensazione è fatalmente conseguente alla credenza che non esista un'altra vita. Dovremmo domandarci se noi cristiani non ci staremo lasciando trasportare dall'afflizione degli uomini senza speranza. Se il sale diventa insipido, con cosa si potrà salare il mondo?

La scienza, ci ricorda Benedetto XVI, ha fatto credere illusoriamente all'uomo che avrebbe potuto ristabilire il dominio sul creato, dominio perso a causa del peccato originale. Lo scienziato o il politico vogliono riconquistare l'Eden mediante strumenti puramente umani: l'adorazione della scienza, la speranza nel progresso e la sfrenata sostituzione della religione con l'ideologia costituiscono la nuova idolatria del nostro tempo. In questo contesto, la fede religiosa si accantona, smette di essere vera sostanza vitale.

Particolarmente illuminante risulta la riflessione che Benedetto XVI ci propone a partire dalla discussa traduzione di un versetto della Lettera agli Ebrei (11, 1): "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono". La fede, c'insegna il Papa, non deve essere una mera disposizione d'animo, un atteggiamento interiore volto verso il futuro, ma una realtà che è dentro di noi, che porta il futuro al presente, che trasforma e sostiene la nostra vita, che fa cominciare nel nostro presente la vita eterna.
Una fede che non è sostanza vitale è una fede falsificata. Diceva Hilaire Belloc che le eresie moderne, più che negare esplicitamente un dogma in concreto, preferiscono falsificarli tutti. Senza dubbio, uno dei dogmi più falsificati della nostra epoca - falsificato persino dai propri cristiani - è il dogma della seconda venuta di Cristo, o parusìa, che è la base salda della speranza cristiana e anche la sua vetta o culmine. È un dogma che recitiamo fra i quattordici articoli di fede contenuti nel Credo della Chiesa, così centrale come quello della sua prima venuta o Incarnazione: "Di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti". Un dogma che conosciamo attraverso la stessa predicazione di Gesù contenuta nei sinottici (Luca, 17, 20; Matteo, 24, 23; Marco, 13, 21) e che troviamo ripetuto nelle lettere di Pietro e Paolo, come pure in quella grande profezia escatologica che è l'Apocalisse. Sappiamo che questa seconda venuta di Cristo sarà preceduta da una grande apostasia e da una grande sofferenza; sappiamo che il mondo non continuerà a evolversi indefinitivamente, fino all'esaurimento delle risorse, né finirà per caso o per una catastrofe naturale, ma che lo farà per un intervento diretto del suo Creatore. L'universo - ci ricorda il grande scrittore argentino Leonardo Castellani - non è un processo naturale, ma "un poema drammatico del quale Dio si è riservato l'inizio, l'intreccio e la conclusione, che si chiamano teologicamente Creazione, Redenzione e Parusìa
".

Ricordiamo il monito degli angeli nell'Ascensione: "Uomini Galilei, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete veduto andare in cielo". Si tratta di un formidabile rimprovero che continua a interpellare i cristiani del nostro tempo. La malattia della nostra fede consiste nel pensare che Dio non tornerà più; o anche nel non pensare che tornerà. Ha sempre richiamato la mia attenzione l'insufficiente presenza del dogma della parusìa nella predicazione dei nostri ministri; e, ancor più, la scarsissima, quasi nulla, consapevolezza che il cristiano comune ha di questa seconda venuta, forse perché ci è stato detto che giungerà preceduta da eventi luttuosi (si sa che è caratteristico della nostra epoca eludere qualsiasi questione molesta o dolorosa). Tuttavia, nell'eludere la questione, noi cristiani non facciamo altro che falsificare la nostra fede; non facciamo altro che affliggerci come uomini senza speranza.
Nell'occultare il processo divino della Storia, ci uniamo alla disperazione della nostra epoca, che promette all'uomo il paradiso sulla terra grazie alle sue forze, ossia mediante l'intervento della scienza e della politica. O, nel migliore dei casi, aderiamo a una certa visione spiritualistica e deliquescente delle cose ultime, sullo stile di quella formulata da Renan, secondo la quale tutti gli uomini che sono stati nel mondo si fonderanno in Dio, facendo parte del suo stesso essere. Tuttavia, di fronte a questa sogno di graduale dissoluzione in Dio - che non è altro che una falsificazione della fede - la speranza della parusìa, quando è sostanza della stessa vita, ci insegna che, alla fine del mondo, noi uomini saremo giudicati, e che non tutti sfoceremo nella Vita, ma anzi in molti cadremo in una "morte seconda" e definitiva. Questa visione del Giudizio intimorisce molti cristiani, che vedono in essa un'espressione lugubre che contraddice la benefica natura divina; mentre in realtà è la sua espressione più luminosa. In effetti, come afferma Benedetto XVI nella Spe salvi, citando - per confutarlo - Teodor W. Adorno, "una vera giustizia, richiederebbe un mondo "in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato"". Questa revoca della sofferenza passata si può ottenere pienamente solo attraverso la risurrezione della carne, estremo nel quale il dogma cristiano sovverte l'idealismo deliquescente proprio della nostra epoca: la fede nel Giudizio finale è così la suprema espressione della speranza cristiana, trasformata in sostanza della nostra vita presente. Per la giustizia divina, è possibile revocare la sofferenza passata; e questa revoca la proveremo nella nostra stessa carne.

Naturalmente, ci ricorda Benedetto XVI, in questo atto di giustizia finale interverrà la grazia; ma la grazia "non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore". Proprio perché è grazia e giustizia allo stesso tempo, la speranza nel giudizio di Dio è sostanza della nostra fede: "Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno - ci spiega Benedetto XVI in uno dei passaggi più chiarificatori della sua enciclica - Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura".

Giustizia e grazia sono già state unite mediante l'Incarnazione; e raggiungeranno la loro pienezza nella parusìa. Per questo procediamo pieni di fiducia verso l'incontro con il Giudice, che è anche il nostro avvocato. E questo procedere fiducioso, sostanza della nostra vita, è il miglior antidoto alla disperazione della nostra epoca. Bisogna predicare nuovamente la Parusìa come pietra d'angolo della speranza cristiana; solo così noi cristiani vivremo la fede senza falsificazioni e saremo il sale che sala il mondo.

(©L'Osservatore Romano - 13 giugno 2008)

Nessun commento: