30 maggio 2008

La risposta alla violenza? La conversione. Charles Morerod approfondisce l'argomento attraverso i testi di Benedetto XVI (Osservatore Romano)


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La speranza e le schiavitù del mondo

La risposta alla violenza?
La conversione


di Charles Morerod

I filosofi dell'Illuminismo hanno duramente accusato la religione d'essere un elemento di violenza. Quel che accusavano era precisamente il dogmatismo: il fatto d'essere convinti della verità della propria fede, e perciò della non verità delle dottrine che contraddicono la propria fede.
Tale critica è frequente oggi, anche perché parte della violenza odierna ha una componente religiosa.
Papa Benedetto xvi ha spesso espresso la sua preoccupazione a questo riguardo, in modo particolare nel suo discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006 e nella sua enciclica sulla carità.

Sappiamo che un animale può diventare aggressivo quando ha paura perché si sente minacciato nella vita. Anche l'uomo che dipende totalmente da quel che ha in questa vita rischia di diventare aggressivo. Tuttavia non è di questa natura la situazione dei cristiani.
Noi, cristiani, abbiamo una meta nella vita, come sottolinea il Pontefice nella Spe salvi (cfr nn. 1-2).
La speranza della vita eterna è una bussola che orienta tutta la nostra vita e, essendo un rimedio alla paura, può essere anche rimedio alla violenza.
Papa Ratzinger ci rivolge una domanda: "La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?" (n. 10). Ci dobbiamo pensare.
La speranza può essere ridotta ad un'evidenza culturale nei Paesi cristiani (cfr n. 3). In realtà la speranza non viene soltanto da un desiderio umano, ma dal nostro incontro con Cristo. Questo, Papa Ratzinger lo sottolineava nella sua precedente enciclica: "All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (Deus caritas est, 1).
L'incontro personale con Dio, che nutre e rafforza la nostra speranza, ha un luogo essenziale nella preghiera (cfr Spe salvi, 32). La speranza non deve essere data per scontata, come frutto di secoli di cultura cristiana. Esige una relazione personale con il nostro Salvatore. Questa relazione personale richiede una conversione: dobbiamo credere che Lui sia Dio e sia un uomo morto e risorto per la nostra vita.
Una speranza unisce le persone che la condividono. Se la religione è accusata di dividere gli uomini, lo può fare non direttamente perché divide, ma perché li unisce in gruppi distinti. Ogni gruppo umano ha una certa coesione, ma diversa nelle comunità umane con Dio o senza Dio.
Ci sono diversi modi d'essere senza Dio. Il primo fattore di distanza fra Dio e l'uomo è il peccato, che divide anche gli uomini (cfr n. 14). Gli esempi si trovano facilmente. Un altro modo d'essere distanti da Dio è la schiavitù nei confronti del mondo materiale. I pagani antichi - e tanti oggi - pensavano di dipendere dagli astri piuttosto che da Dio Padre che ci ama e ci libera: "Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo (...). E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi" (n. 5).
Una comunità di persone che pensa di dipendere dal mondo materiale o da un destino cieco non è predisposta a delle relazioni libere: non per niente il concetto di persona e di dignità personale si è sviluppato col cristianesimo.
Altra forma di schiavitù dal mondo materiale è la speranza, necessariamente delusa, in una trasformazione del mondo tramite mezzi puramente scientifici (cfr nn. 16-17) o politici ed economici (cfr n. 20). Tali mezzi sono ovviamente utili, ma non sufficienti e, ancor di più, se sono lasciati da soli, le conseguenze sono tragiche.
La comunità umana senza Dio, l'abbiamo vista e la vediamo ancora: il Papa avrà in memoria i drammi del comunismo ateo e del nazismo anticristiano, descritti nelle loro radici da Henri de Lubac (autore caro al teologo Ratzinger) nel suo libro del 1944 Le drame de l'humanisme athée.
Se il peccato divide, la redenzione unisce: "La "redenzione" appare proprio come il ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione che si delinea nella comunità mondiale dei credenti" (n. 14).
L'unione dei credenti fa già vedere una pace nell'unità, che si riconosce bene soltanto con gli occhi della fede. Ma anche chi non crede può percepirne qualcosa. I poliziotti - in parte credenti, ma non tutti - che hanno visto le giornate mondiali della gioventù sono rimasti stupiti dalla pace e dall'unità di tanti giovani. Si percepiva la presenza del Regno di Dio. Le relazioni umane sono trasformate dall'amore di Dio, perché "l'amore di Dio si rivela nella responsabilità per l'altro" (n. 28). Il fatto d'aver una speranza al di là di questo mondo ci da la possibilità di superare i nostri diversi egoismi a favore degli altri, del bene comune (cfr n. 39).
Anche un non-credente può vedere l'aiuto proveniente dalla speranza cristiana. Non soltanto chi ha una speranza di risurrezione è in posizione migliore per dare la sua vita per gli altri in casi estremi, ma la prospettiva della risurrezione include quelli che una società materialista ed edonista rischia di emarginare, cioè quelli che ci spaventano perché soffrono: "Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d'altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell'altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso" (n. 38).
La speranza non è automatica. Richiede l'incontro con il Signore che ha vinto la morte e ci indica la meta della nostra vita. Questo incontro implica inoltre una rinuncia alla propria centralità, per amore del Signore e del prossimo. L'incontro con Cristo e la rinuncia al proprio egoismo richiedono una conversione.
La conversione è un cambio interiore, al quale Cristo ci invita. La speranza della quale il mondo ha bisogno non è prima di tutto un cambio di strutture, come l'aveva sognato Karl Marx (cfr n. 21). Un progresso tecnico, scientifico, politico soltanto esteriore non corrisponde all'uomo, ed è pericoloso (cfr n. 22).
Non soltanto le strutture materiali non possono essere sufficienti, ma le strutture migliori devono essere ricevute interiormente dagli uomini. E questo non è dato per scontato una volta per tutte, poiché ogni uomo ha la sua libertà e non è costretto a ratificare le scelte fatte da altri. Questo vale anche per le generazioni (cfr n. 24).
Certamente il Papa deve agire dentro delle strutture e, soprattutto, nella struttura voluta da Cristo stesso per la comunità dei suoi discepoli. Queste strutture hanno senso per i discepoli, per quelli che hanno incontrato Cristo e hanno liberamente accettato di seguirlo, anche fino alla morte. Quando l'allora cardinale Ratzinger predicava gli esercizi spirituali in Vaticano, nel 1983, spiegò che nella conversione la nostra volontà si unisce alla volontà di Cristo e così partecipiamo alla sua libertà. E aggiunse questo commento più generale: "Nell'unità delle volontà, di cui abbiamo parlato, è raggiunta la maggiore trasformazione pensabile dell'uomo, che è allo stesso tempo l'unica cosa definitivamente desiderabile: la sua divinizzazione. Così la preghiera, che entra nella preghiera di Gesù e che nel corpo di Cristo diventa preghiera di Gesù Cristo, può essere definita come "laboratorio" della libertà. Qui e in nessun altro luogo avviene quel profondo cambiamento dell'uomo, di cui abbiamo bisogno affinché il mondo diventi migliore" (Joseph Ratzinger, Il cammino pasquale, Milano, Àncora, 1985, p. 90).
L'unità della nostra volontà col Signore incontrato ci apre le porte della divinizzazione. L'uomo - rimanendo uomo - partecipa della vita divina. Niente di meno! Se ne prendiamo un po' coscienza, non potremo che giungere alla stessa conclusione del cardinale Ratzinger: ecco la cosa di cui il mondo ha bisogno! Ecco il regalo che dobbiamo trasmettere! Ecco la fonte della pace! E questo regalo richiede la conversione.
Come diceva san Tommaso d'Aquino, ogni azione si fa per un fine. Perciò nei nostri atti la causa più importante è la causa finale, quella che riguarda lo scopo dell'azione. Ci vuole un fine che unisca i fini particolari: l'uomo ha bisogno di uno scopo ultimo, altrimenti cammina vivendo la sua vita soltanto per stancarsi sempre di più, saltando senza unità da un desiderio a un altro. Il fine ultimo e unificante della vita umana è essere con Dio, vedere Dio, trovandoci la perfetta beatitudine. Se non lo potessimo fare in nessun modo, la nostra vita sarebbe una vana stanchezza. Con altre parole il Papa dice lo stesso. Senza una grande speranza unificante, le piccole speranze perdono la loro forza: "Noi abbiamo bisogno delle speranze - più piccole o più grandi - che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano" (n. 31).
Ci sono delle speranze parzialmente unificanti, che deludono perché rimangono chiuse in questo mondo e non favoriscono la libertà umana (le speranze che mirano soltanto a cambiare delle strutture materiali, o al piacere egoista).
La speranze false non corrispondono alla natura umana e perciò cercano sempre d'imporsi con una violenza più o meno sottile agli individui o alle società.

La speranza vera, quella che ci è offerta dal nostro Creatore, libera l'uomo e gli permette di vivere all'altezza del suo desiderio infinito di conoscenza e d'amore. Questa speranza richiede una unità della nostra volontà con quella di Dio, sulle orme di Cristo morto e risorto: si tratta di una conversione.

Proporre una conversione a tutti gli uomini è pericoloso? È fonte di violenza, di divisione fra gli uomini? Lo può essere, ma le caratteristiche della speranza cristiana si oppongono alla violenza perché la speranza ci da motivo di superare i nostri egoismi; ci aiuta a superare le nostre paure, che sono fonte di aggressività; la speranza, la fede, l'amore e dunque la conversione devono per forza essere libere e conformi alla ragione.
Una volta incontrato Cristo, una volta convertito, Pietro ha potuto dire: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Giovanni, 6, 68). Questa bella esperienza ha cambiato il mondo, l'ha reso più umano, ed è offerta alla nostra libertà per la pace di tutti.

(©L'Osservatore Romano - 31 maggio 2008)

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