28 marzo 2008

Ventotto anni fa l'uccisione durante la messa. Oscar Romero un vescovo fedele al suo popolo (Osservatore)


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Ventotto anni fa l'uccisione durante la messa

Oscar Romero un vescovo fedele al suo popolo

di Vincenzo Paglia
Vescovo di Terni-Narni-Amelia

Era la sera del 24 marzo 1980, lunedì dell'ultima settimana di Quaresima. Monsignor Oscar Arnulfo Romero, da tre anni arcivescovo di San Salvador, stava celebrando la messa nella chiesetta dell'ospedale per malati oncologici presso cui viveva. Aveva appena finito l'omelia. Le ultime parole erano state eucaristiche: "Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci alimenti anche per dare il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo". Si udì uno sparo proveniente dall'ingresso della chiesa. Monsignor Romero cadde dinanzi all'altare. Aveva 63 anni. Veniva meno un pastore che tanto si era preoccupato per il suo popolo preso nella spirale della violenza. Il Paese scivolava verso una guerra civile che avrebbe provocato ottantamila morti su una popolazione di quattro milioni di persone.
Chi era monsignor Romero? Anzitutto un vescovo, secondo la migliore tradizione. Aveva studiato a Roma dal 1937 al 1943. Amava i Papi, soprattutto Pio XI, Paolo VI e Giovanni Paolo II che aveva conosciuto personalmente. Fedelissimo al magistero della Chiesa, non mancava di carismi: la parola, la predicazione, la pastoralità. Non era un intellettuale, un teologo, un organizzatore, un amministratore. Neppure un riformatore. E tanto meno un politico, come qualcuno ha voluto vederlo strumentalizzando il suo nome a propri fini. Monsignor Romero era un vescovo e un pastore secondo la più classica nota tridentina. Non era un mistico, ma certamente un uomo di preghiera. Era timido di carattere, incerto nel decidere, ma traeva forza dalla preghiera cui si ispirava in ogni scelta. Fu la preghiera a dargli la forza di affrontare la morte che egli sapeva incombente e che lo sgomentava.
Scriveva pochi giorni prima di essere ucciso: "Temo i rischi a cui sono esposto. Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è molto possibile; anche il Signor Nunzio di Costarica mi ha avvisato di pericoli imminenti (...) Le circostanze sconosciute si vivranno con la grazia di Dio. Egli ha assistito i martiri e se è necessario lo sentirò molto vicino nell'offrirgli l'ultimo respiro. Ma più che il momento di morire vale il dargli tutta la vita e vivere per lui".
Pochi mesi prima, in visita a Roma, aveva annotato: "Questa mattina sono andato nuovamente alla basilica di San Pietro e, presso gli altari, che amo molto, di San Pietro e dei suoi successori attuali di questo secolo, ho chiesto insistentemente il dono della fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita come l'hanno consacrata questi moderni successori di Pietro".
Sul tema del martirio aveva riflettuto non solo per sé ma anche per i tanti sacerdoti, catechisti, fedeli periti nel vortice di violenza che aveva investito il suo Paese, solo perché parlavano di Vangelo, di pace, di giustizia.
Ai funerali di un suo prete aveva spiegato, portando l'esempio dell'essere madre, come il martirio fosse una testimonianza di fede che ogni cristiano comunque dava, se si conformava alla volontà di Dio: "Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l'onore di dare fisicamente il loro sangue, di essere uccisi per la fede; però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui uno spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore (...) Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; è dare la vita a poco a poco, nel silenzio della vita quotidiana, come la dà la madre che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio".
Monsignor Romero fu vittima della polarizzazione politica, che non lasciava spazio alla sua carità e pastoralità. Avverso sia alla violenza espressa dal governo militare sia a quella espressa dall'opposizione guerrigliera, visse come pastore il dramma del suo gregge. Tentò di porre rimedio alla violenza condannandola da qualunque parte venisse. Fu sensibile alle esigenze di giustizia. Invocò per tutti l'osservanza delle leggi e della costituzione. Non si compromise con nessun partito o fazione politica. Non travalicava il ruolo di vescovo ma le sue parole oneste erano pubblicamente considerate e rispettate. Era la personalità più autorevole del Paese. Chiedeva insistentemente di applicare la dottrina sociale della Chiesa e per questo venne accusato di essere comunista, ma lui aveva sempre ritenuto che il comunismo fosse da condannare, e non mutò mai parere.
Giovanni Paolo II nella celebrazione memoriale dei "nuovi martiri", al Colosseo, il 7 maggio 2000, così pregava: "Ricordati, padre dei poveri e degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del Vangelo fino al dono della loro vita: pastori zelanti, come l'indimenticabile arcivescovo Oscar Romero ucciso all'altare durante la celebrazione del sacrificio eucaristico...". E Benedetto XVI, nella visita ad limina ai vescovi salvadoregni, lo ha ricordato tra "i pastori pieni dell'amore di Dio". Monsignor Romero resta un esempio di pastore buono che offre la vita per il suo popolo.

(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)


La vicinanza di Paolo VI e papa Wojtyla

La notizia dell'assassinio dell'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, con le prime foto di lui rotolato nel sangue ai piedi dell'altare, fecero un'impressione enorme. Era il 25 marzo 1980 e a Roma non si era abituati a immaginare un vescovo ucciso mentre celebra la messa. Gli avevano sparato la sera prima, ma il pericolo imminente di vita era nell'aria da alcuni mesi e si era materializzato già ai primi di marzo.
La pena per quella notizia fu grande: sentii un vuoto nella testa simile a quello provato in via Fani, qualche anno prima, quando vi giunsi per dovere di cronaca dopo il sequestro di Moro e lo sterminio della sua scorta e, prima ancora, davanti alla prima vittima del terrorismo che vidi nella mia professione di cronista, il giudice Occorsio. Sempre sangue e violenza, per estirpare ragioni di vita, di convivenza, progetti di pace.
Con l'arcivescovo Romero avevo avuto un incontro piuttosto breve meno di due mesi prima. Per ragioni professionali seguivo la sua azione pastorale, leggevo tutto quanto di lui mi capitava tra mano, ma parlargli fu un'altra cosa. Stava in prima fila nell'aula delle udienze generali, quel 30 gennaio del 1980. Con un collega vaticanista eravamo andati a sentire il polso della situazione della Chiesa in Salvador, incontrando il suo vescovo più importante che dava tanto fastidio ai militari.
Quella volta Romero era di passaggio a Roma, diretto a Lovanio. Sarebbe stata l'ultima. Solo due giorni e non sperava neppure di poter incontrare il Papa. Era lì per potergli almeno baciare la mano. Non poteva sapere quando parlava con noi che, invece, Giovanni Paolo II gli avrebbe chiesto di aspettare perché voleva incontrarlo al termine dell'udienza generale. Il Papa lo avrebbe ricevuto "con molto affetto" e abbracciato "molto fraternamente", assicurandogli la sua vicinanza e la sua preghiera per tutto il popolo del Salvador. Ma Romero ancora non poteva immaginare "la grande sorpresa".
Pensavo che mi sarei trovato di fronte una persona risoluta ed energica, un vero combattente. Invece era una persona fiduciosa, che mi colpì per la sua apparente fragilità, il suo sorriso impacciato. Un incontro imprevisto con una persona buona, che si diceva felice di stare in quella udienza nella casa del Papa perché ne traeva forza per la sua azione pastorale difficile. Con una certa qual ritrosia ad accentuare il pericolo che lo sovrastava. Sottolineava piuttosto le sofferenze del suo popolo e della sua Chiesa più che le minacce alla sua vita. Una semplicità disarmante e toni sommessi al punto da far sembrare eccessive le minacce contro la sua persona. Che invece erano gravi e determinate. Il giorno del suo assassinio pensai a quanta superficialità c'era stata nel nostro incontro nel valutare la gravità delle cose che Romero raccontava con tanta serenità.
La nostra conversazione venne bruscamente interrotta dal responsabile del cerimoniale quindici minuti prima che giungesse il Papa nell'aula. Una stretta di mano e via, non immaginando che si trattava di un addio.
A marzo, subito dopo le notizie della sua uccisione, mi adoperai per trovare reazioni in Vaticano, tanto mi pareva enorme l'assassinio sull'altare di un vescovo. Non si sapeva - mi si disse - di quale colore fosse la pallottola che aveva ammazzato l'arcivescovo.
Il mio dispiacere nel tempo è andato attenuandosi fino a scomparire scoprendo la vicinanza di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II a Romero. Al di là delle dicerie, la linea di solidarietà a Romero da parte dei due pontefici - documentata bene nel diario dello stesso Romero - è ormai un punto fermo. E ha avuto pubblico riscontro da Giovanni Paolo II non solo con la visita sulla sua tomba in circostanze drammatiche, ma anche con la collocazione del presule tra i nuovi martiri del Novecento in occasione della celebrazione memoriale del 7 maggio 2000 al Colosseo. In quell'occasione il Papa pregò per "l'indimenticabile arcivescovo Oscar Romero ucciso all'altare". Come tanti altri religiosi, suore, laici, "impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della fraternità senza frontiere".

c. d. c.

(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)

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