31 marzo 2008

"Sono io a stampare le Papa news". Panorama intervista Giovanni Maria Vian


Vedi anche:

Benedetto XVI ai Salesiani: fedeli al carisma di San Giovanni Bosco per rispondere con "passione apostolica" all'emergenza educativa dei nostri tempi

Il Papa ai Salesiani: "Il processo di secolarizzazione non risparmia purtroppo nemmeno le comunità di vita consacrata

La Chiesa celebra la Solennità dell'Annunciazione (Radio Vaticana)

Se uno si convertisse all'Islam sarebbe una sfida? Lettera a Beppe Severgnini (Corriere)

Regina Coeli: audio integrale di Radio Vaticana

Le tappe cagliaritane di papa Ratzinger (7 settembre 2008)

Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani di Sandro Magister

Trovati in Germania sei sermoni di sant'Agostino in un manoscritto del XII secolo a Erfurt. Si parla di carità, elemosine e resurrezione dei morti

La pietra di Magdi (Cardini per "Europa")

Padre Lombardi smentisce "La Stampa" ed il Tg1

La rivelazione irresistibile e la conversione (Gianfranco Ravasi per "Il Sole 24 ore")

Il Papa: "Dalla misericordia divina, che pacifica i cuori, scaturisce poi l’autentica pace nel mondo, la pace tra popoli, culture e religioni diverse" (Regina Coeli, 30 marzo 2008)

Il prezzo della coerenza e del coraggio: altissimo livello di sicurezza per la visita del Papa negli USA

Inizio francamente a stancarmi di un certo giornalismo, di certi commenti, di una certa Chiesa...

Allam, Pietro De Marco: "La conversione non è amata perchè luogo di identità e differenza" (L'Occidentale)

CONVERSIONE DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: ARTICOLI, INTERVISTE E COMMENTI

Sono io a stampare le Papa news

STEFANO LORENZETTO

Intervista Suo nonno e suo padre, prima di lui, hanno scritto per l’«Osservatore romano». Ma da quando Giovanni Maria Vian ne è direttore, molto è cambiato: nuova veste, nuovi collaboratori anche non cattolici perché il giornale deve essere luogo di confronto. Perfino un’apologia di Bruce Springsteen...

Al nuovo direttore dell’Osservatore romano stanno imbiancando l’ufficio. Incontro Giovanni Maria Vian in una stanzetta provvisoria. Ha appoggiato il crocifisso sul termosifone, scelta involontaria di alto valore simbolico: nessun ateo potrà più dire che Gesù è morto di freddo. Prima di traslocare in Vaticano, 188 metri in linea d’aria dallo studio del Papa, era docente di filologia patristica alla Sapienza di Roma. Di ogni riferimento storico mi produce copia all’istante. Deformazione professionale: «scripta manent».
Solo che ha l’abitudine di riciclare nel vassoio della stampante i documenti che s’ammonticchiano sulla scrivania, per cui sul retro di un foglio mi ritrovo una nota della Prefettura della Casa pontificia, «Impegni del Santo Padre», con stemma papale e timbro della segreteria di Stato. «Non lo faccio per l’ambiente, il cloro, quelle cose lì. È che sono stato abituato alla parsimonia e alla mia età non si cambia più».

Il 10 marzo ha compiuto 56 anni.

«Il giornale del Papa ne farà 147 il 1° luglio. M’interrogo sull’uso del tempo, sui talenti non trafficati. Guardo alle vite di alcuni personaggi del passato, al moltissimo che hanno saputo fare in pochissimo tempo, e misuro tutta la mia pochezza. L’umanista Lorenzo Valla morì a 50...».

Pausa interminabile.

«Mia madre mi chiamava scherzosamente monsignor Tardini, come il segretario di Stato del beato Roncalli. Indugio volentieri».

Sbircia lo Swatch, allacciato sul polsino della camicia secondo la moda Agnelli. Il cinturino è decorato da codici a barre, quelli che lo scrittore francese Marc Dem identificava col 666 dell’Anticristo.
Vian è in ufficio dalle 7. Entro le 14 deve chiudere l’edizione che alle 15 sarà bell’e stampata con la data di domani. I responsabili delle redazioni arrivano in processione a farsi approvare titoli e bozzoni. Marco Bellizi, capo del servizio religioso, è vestito di nero come un dignitario pontificio ma ha zazzera e anello metallico zingareschi.
Giuseppe Fiorentino, capo degli esteri, l’anello al dito ce l’ha di plastica e sul mento sfoggia una mosca alla Giolitti. «I giornalisti sono 27, cui si aggiungono 25 addetti alle edizioni estere, che io chiamo periodiche, perché per la Santa sede nessuno è straniero. Molte redattrici poliglotte sono maritate e con figli. Al mio arrivo Mary Elizabeth Lariviere s’è sentita in dovere di giustificarsi: “Sono sposata anch’io. Mio marito si chiama Dio”. È una bravissima suora statunitense».
Entra Raffaele Alessandrini, decano della cultura, con un titolo dirompente: «Anche per Giuda ci sarebbe stato perdono se avesse fatto penitenza».
Segue esegesi in romanesco: «Nun è mia, è di Sant’Ambrogio, eh». Il professor Vian, che ha all’attivo una bibliografia di 92 titoli dedicati ai Padri della Chiesa, annuisce indulgente. Imprimatur. Sopraggiunge Marcello Filotei, un altro della cultura. Porge un articolo. Il direttore scorre le prime righe: «Com’è?». Filotei: «Molto assertivo». Vian: «Cestino. Pardon: archivio sine die».
Per dare un’idea della prensilità intellettuale dell’uomo, basterà dire questo: il 27 novembre, un mese dopo che era stato nominato direttore, lo informai d’aver trovato L’Osservatore sul bancone della trattoria Alla Pergola a Fagnano di Trevenzuolo, profondo Veneto, offerto in lettura ai clienti; il 27 febbraio ha citato la curiosità in un editoriale di prima pagina intitolato «Per diffondere il quotidiano del Papa».

La diffusione, problema antico.

Sono 20 mila copie, che diventano 100 mila la domenica, quando usciamo in abbinamento con L’Eco di Bergamo. Una novità recentissima.

Le sue copie non si contano: si pesano.

D’accordo. Però pesano anche sulle finanze della Santa sede, purtroppo: perdiamo 4,5 milioni di euro l’anno.

Cesidio Lolli, responsabile della cronaca vaticana, incontrava quasi quotidianamente Pio XII e Giovanni XXIII. Lei vede spesso Benedetto XVI?

L’ultima volta l’altro ieri. Ma era un’udienza concessa al Pontificio comitato di scienze storiche, di cui faccio parte. Firmavo L’Osservatore da nove giorni quando mi telefonò il segretario monsignor Georg Gänswein: «È libero giovedì 8 novembre? Il Santo Padre gradirebbe averla ospite a pranzo».

Mi lasci indovinare: s’è liberato.

Sono salito nel Palazzo apostolico con Carlo Di Cicco, il vicedirettore che ho portato dall’agenzia Asca.

Indro Montanelli diceva: «È rassicurante vedere le colonne di piombo dell’“Osservatore”, grevi e solide come quelle della basilica vaticana».

Ci scrivevano mio nonno e mio padre. Io cominciai a collaborarvi nel 1977. Il primo atto da direttore è stato ispirarmi alla grafica degli anni Venti. Carattere Baskerville, via i fronzoli.

Dov’è nato?

A Roma. Mi battezzò in San Pietro il futuro Paolo VI, direttore spirituale di mio papà Nello, che era stato mandato da padre Agostino Gemelli a specializzarsi in biblioteconomia alla Biblioteca vaticana. Mio nonno Agostino era amico di San Pio X. Il suo fu l’ultimo matrimonio celebrato dal patriarca Giuseppe Sarto prima di partire per il conclave del 1903 dal quale sarebbe uscito pontefice. Mia madre Cesarina Ghioldi era una comasca di Guanzate, figlia di formaggiai, orgogliosa d’essere stata battezzata col rito ambrosiano: a testa in giù.

Ma Vian non è un cognome romano.

Famiglia veneziana, imparentata con l’ultimo ramo dei dogi Contarini, il casato che diede alla Chiesa il cardinale Gasparo, il Lutero italiano. Il capostipite, Andrea Vian, era un tagliaboschi friulano arruolato da Napoleone come granatiere. Nella battaglia della Beresina si salvò sventrando il cavallo e rannicchiandosi dentro la pancia.

È sposato?

Vedovo. Mia moglie Margarita Rodríguez è morta nel 2000. C’eravamo sposati nel 1984. S’è ammalata di sclerosi multipla. Non abbiamo avuto figli e in questi casi ci si domanda sempre... (Abbassa lo sguardo). Avrebbero visto l’agonia della madre.

Da chi è stato scelto?

Il direttore dell’Osservatore è nominato dal Papa. Credo che a suggerire il mio nome sia stato il segretario di Stato. Conosco il cardinale Tarcisio Bertone dal 1984. Eravamo entrambi collaboratori all’enciclopedia Treccani.

Lo scambio di consegne col precedente direttore Mario Agnes com’è stato?

Siamo passati dal lei al tu. Ha voluto presentarmi uno per uno i dipendenti e alle 12 abbiamo recitato tutti insieme l’Angelus, come si fa ogni giorno all’Osservatore. Al congedo mi ha detto: «Io 23 anni, tu almeno 25». Eravamo commossi.

Quando Benedetto XV nel 1920 chiamò alla guida dell’«Osservatore» il conte Giuseppe Dalla Torre, che sarebbe rimasto direttore per 40 anni, gli diede questo viatico: «Ricordatevi bene che la colpa è sempre vostra, soprattutto quando è Nostra».

Siamo l’organo ufficioso della Santa sede, non ufficiale. A parte la rubrica Nostre informazioni, che riporta nomine e udienze del Santo Padre.

Lei che mandato ha avuto?

Informare sull’Italia in un’ottica internazionale, dare più spazio alle Chiese orientali anche non cattoliche, allargare il parterre delle firme femminili.

E ha subito reclutato la storica Anna Foa, figlia del comunista Vittorio e pronipote del rabbino capo di Torino.

Credo sia la prima volta di una commentatrice ebrea sull’Osservatore.

Avete tessuto le lodi di Bruce Springsteen. Chissà la gioia del direttore della Cappella Sistina...

(Ride). Non conosco il punto di vista di monsignor Giuseppe Liberto. (Chiede lumi al redattore Filotei. Il responso è ferale: «Non vicinissimo»). Di musica abbiamo parlato tanto, dando spazio a tradizionalisti e innovatori.

La recensione sul cantante rock era firmata Stas Gawronski. Parente?

Il nipote di Jas, sì. Quindi parente del beato Pier Giorgio Frassati.

Il suo battezzatore Giovanni Battista Montini scriveva: «Sull’“Osservatore” non si parla di teatro, di sport, di finanza, di mode, di processi, di fumetti, di enigmistica».

«Ex professo», aggiungeva. Cioè non se ne parla d’abitudine. Infatti ho appena passato un pezzo di finanza del banchiere Ettore Gotti Tedeschi.

Il mio amico Cesare Marchi, che esordì proprio sull’«Osservatore», si vide troncare la collaborazione per aver proposto a Dalla Torre un elzeviro su Lesbia. Magari lei l’avrebbe pubblicato.

Non so: dovrei leggerlo. Come allievo di Manlio Simonetti, discepolo di Ettore Paratore, figurarsi se disprezzo Catullo. Posso avere pregiudizi per un poeta latino le cui opere furono salvate dai monaci medioevali? Tutta la tradizione classica è sopravvissuta grazie al Cristianesimo, come ho raccontato nel mio libro Bibliotheca divina.

Da agosto farà scrivere l’intellettuale di origine algerina Khaled Fouad Allam, che «La Repubblica» aveva ingaggiato per sostituire un Allam ben più famoso, Magdi, passato al «Corriere della sera».

Tutto è possibile, insciallah. Se Dio vuole, anche questa collaborazione ci sarà. Il Papa desidera che L’Osservatore sia luogo di confronto. È la grande lezione di Ratisbona.

Il vescovo Cesare Mazzolari, missionario comboniano nel Sudan del fondamentalista Hassan el-Turabi, mi ha detto: «Saranno i musulmani a convertire noi, non il contrario. A me buttano giù le scuole e voi gli spalancate le porte delle chiese. Se uno è ladro, non gli dai una stanza dentro il tuo appartamento, perché presto o tardi non troverai più i mobili».

Che la situazione non sia facile è sotto gli occhi di tutti. Quali altre strade abbiamo se non procedere insieme, preservando la nostra identità? È una sfida esigente, che la storia non incoraggia. Ma nella visione giudaico-cristiana la storia non è destinata a ripetersi ciclicamente: ha una direzione. Certo, già il Leopardi dubitava delle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità e da questo punto di vista il Novecento è stato tragicamente istruttivo. Però la speranza nel futuro accomuna ebrei, cristiani e musulmani. È un mistero quello che accadrà alla fine.

Come giudica la stampa italiana?

In chiaroscuro. Molto vivace, però un po’ troppo autoreferenziale, ripiegata sull’Italia. Se non fosse per Avvenire, Foglio e Riformista, gli esteri lascerebbero a desiderare. Idem la cultura. Si salvano l’inserto Agorà del quotidiano cattolico diretto da Dino Boffo e il supplemento domenicale del Sole 24 ore.

Quali giornali italiani entrano nella mazzetta di Benedetto XVI?

A parte L’Osservatore e Avvenire, so che il Santo Padre guarda tutti i giorni la prima pagina del Corriere.

Come lo sa?

Lorenzetto, lei è incorreggibile. Le faccio una confidenza che terrà per sé, intesi? Da un’allusione di monsignor Gänswein ho capito che Sua Santità trova divertenti le vignette di Emilio Giannelli.

Prima di arrivare qui, lei collaborava a molti giornali, compresi «Il Foglio» ed «Europa», il quotidiano della Margherita. Trasversalità sorprendente.

Ho sempre scritto su invito. E l’ho fatto ben volentieri, anche a costo di meritarmi gli appellativi di teocon e di teodem, a seconda degli occhiali ideologici inforcati da chi mi leggeva.

Il direttore del «Foglio» ha introdotto nella campagna elettorale il tema dei 130 mila aborti di stato praticati ogni anno in Italia. Giusto o sbagliato?

È un’iniziativa importante, perché un tema tragico come questo non può essere dimenticato. Ma una cosa è la petizione morale per la moratoria e un’altra cosa è la proposta politica.

Traduco: ha sbagliato a presentare la lista.

Qui parlo a titolo personale, come privato cittadino, non come direttore dell’Osservatore. A me pare che rischi di approfondire le divisioni su un tema che invece richiede il massimo consenso. Detto questo, Giuliano Ferrara resta un buon amico, una persona intelligente e coraggiosa che ha contribuito a innalzare il livello culturale e ideale del giornalismo italiano.

Quindi hanno ragione Silvio Berlusconi e Walter Veltroni a sostenere all’unisono che i temi etici non devono entrare nella competizione politica?

Sono temi che non vanno strumentalizzati. La difesa della vita umana dovrebbe stare a cuore a tutti i partiti. Concordo col presidente Giorgio Napolitano quando afferma che su questi argomenti non ci si deve dividere.
Se non ne parli, non ti dividi di sicuro.
Poi però le decisioni legislative vanno prese. La 194 è una legge di tutela della maternità. Deve prevenire gli aborti, non favorirli.

Ferrara vi fa il verso pubblicando ogni lunedì «L’Osservatorio romano». La lusinga o la indispettisce?

Ci fa un sacco di pubblicità gratuita. Pensi che al nostro ufficio diffusione arrivano lettori a chiederci le copie arretrate di articoli usciti nella finta edizione allegata al Foglio del lunedì.

Voi avete nella testata un motto evangelico. Ferrara ha preferito Giovenale: «Maxima debetur puero reverentia», al fanciullo si deve il massimo rispetto.

Anche noi abbiamo un motto laico: «Unicuique suum», a ciascuno il suo. Fu messo accanto al triregno e alle chiavi di Pietro nel 1862, quando al Papa cominciarono a strappare con la violenza lo Stato pontificio. Nella testata si legge: «Giornale quotidiano politico religioso». Prima politico, poi religioso. Montini insegnava che la politica è la forma più alta di carità.

Mentre aspettavo d’incontrarla, sono sceso nelle Grotte vaticane. Tomba di Paolo VI: nessuno in preghiera. Tomba di Giovanni Paolo I: lo stesso. Tomba di Giovanni Paolo II: ressa di fedeli. L’oblio colpisce anche i successori di Pietro?

L’oblio colpisce tutti. Il pontificato di Karol Wojtyla è stato il secondo più lungo nella storia, dopo quello di Pio IX: 27 anni e mezzo. Molti fedeli sono nati con lui, per loro è l’unico Papa.

Non ho trovato nessuno in preghiera neppure sulla tomba di San Pietro.

Forse la gente vede troppa tv.

La sua fede in Dio ha mai vacillato?

No. Ma non è merito mio.

Ha scritto un editoriale «Ai nuovi lettori» che si concludeva così: «Il male non avrà l’ultima parola». Ne è sicuro?

Sì, altrimenti non dirigerei un giornale che ha come secondo motto «Non praevalebunt». Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa, ne sia sicuro anche lei. L’ha promesso Gesù.

© Copyright Panorama n. 13/2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bella intervista, mi piacciono molto l'equilibrio e la saggezza del direttore! Peccato che sia un giornale così elitario! Potrebbe risollevare un po' il livello culturale che certi giornali vanno perdendo pur diventando sempre più grossi in pagine... Saluti, Marco