30 gennaio 2008

Dialogo tra lo scienziato Marco Bersanelli e il filosofo Costantino Esposito "provocati" dalla "Spe salvi" (Tracce)


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Marco Bersanelli, astrofisico dell’Università di Milano, e Costantino Esposito, filosofo dell’Università di Bari, si sono lasciati provocare dalla lettura dell’enciclica sulla speranza. E ne hanno dialogato tra di loro. Ecco che cosa si sono detti

Uno scienziato e un filosofo, che per consuetudine dialogano tra loro da tempo, e in questo sono un esempio di partecipazione comune a un’impresa culturale, hanno accettato di cimentarsi con la nuova enciclica di Benedetto XVI, la Spe salvi, che il movimento - dopo averla allegata a Tracce di dicembre - ha indicato come libro del mese di gennaio.

Cominciamo a identificare alcuni indizi che emergono dall’enciclica. Che cosa ha suscitato in voi la prima lettura del testo?

Costantino Esposito. Un sussulto della coscienza. Lo dico vedendo anche la reazione inedita di alcuni miei colleghi universitari, che non sono neanche cristiani. Benedetto XVI ha ridestato la nostalgia potente di un significato nella vita. Di fronte ai miti individuali e collettivi, culturali e sociali che ciclicamente nascono e muoiono, l’enciclica indica qual è la “carne” dell’esperienza umana, il suo desiderio più radicale: un uomo può vivere solo se c’è una ragione per cui valga la pena. Che cosa mi aspetto dalla vita, che cosa mi fa andare avanti? Con queste domande il Papa riapre il gioco del presente. Isidoro di Siviglia diceva che la parola spes viene da pes, piede, perché è ciò che permette il passo, ogni mattina. È ciò che il cuore desidera.

Marco Bersanelli. E questo ridestarsi di una speranza è dentro la drammaticità storica in cui stiamo vivendo.
Il Papa constata - quasi a malincuore, mai come giudizio cattivo - il fallimento di tutte le speranze riposte in qualcosa di finito. La domanda di totalità che è l’uomo, infatti, non può essere rinchiusa dentro una risposta limitata. E qui la sua critica all’ideologia del progresso e della scienza è acuta.

Senza mai misconoscere il valore della scienza in sé (che, come dice a un certo punto, «può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità»), ne sottolinea l’inadeguatezza a quel livello dell’esperienza umana che può trovare una risposta solo in qualcosa d’infinito.

Esposito. La speranza di cui parla Benedetto XVI non riguarda innanzitutto il futuro, ma il presente. Negli ultimi secoli si è consumata una progressiva divaricazione tra la speranza del futuro - di volta in volta identificata con l’idea di progresso, con il mito della totale liberazione dal bisogno, con l’ideologia di un uomo nuovo, in una parola, con quello che “dobbiamo fare”, come diceva Kant - e la condizione del presente. Fino a giungere alla filosofia contemporanea, per esempio a Ernst Bloch, che ne Il principio speranza sostiene una cosa terribile, proprio perché irragionevole: la speranza è là dove scompare il dato presente; addirittura, l’unica redenzione dell’uomo è nel potersi emancipare dal presente, che resta una prigione, una perdita, perché in esso tutto è pietrificato, cioè senza significato. Invece il Papa lo rimette in movimento: dice che l’unico motivo per sperare può essere solo in qualcosa di presente. L’uomo è fatto per l’infinito, ma l’infinito è presente: ecco la novità cristiana. Grazie a questo gli uomini non sono più schiavi degli elementi e delle leggi della natura.

Scrive il Papa: «L’inesorabile potere degli elementi materiali non è più l’ultima istanza; allora non siamo schiavi dell’universo e delle sue leggi, allora siamo liberi».

Bersanelli. E continua: «Una tale consapevolezza ha determinato nell’antichità gli spiriti schietti in ricerca». La ricerca scientifica e filosofica del vero nasce da questa libertà dall’universo, dal percepire che non siamo schiavi della natura. Dice, infatti: «La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale». Questo non toglie nulla al dinamismo della natura e all’umanità dell’uomo; ed è soltanto questo che “risuona” col desiderio di compimento di un essere umano. In quanto uomo, uno scienziato non è veramente appagato dall’avere scoperto un meccanismo, ma quando fa esperienza che quel meccanismo è dentro un ordine, un disegno universale voluto…

«Anche i capelli del capo sono contati», dice il Vangelo.

Bersanelli. È l’aspetto di profondità post-moderna che indica il Papa: dal di dentro del cammino delle scienze naturali sorge il bisogno di guardare al di là di esse; questo è un punto che nessuno può misconoscere; e l’enciclica lo fa con una delicatezza e una profondità che lasceranno il segno.

Esposito. Nell’esperienza della persona questa «vera presenza», come la chiama il Papa, non è solo una risposta ultraterrena, ma è ciò che salva il mio desiderio qui e ora, che permette di desiderare e godere della vita. Mi ha colpito la coincidenza quasi letterale con un giudizio di don Giussani ne La coscienza religiosa nell’uomo moderno: se l’umanità ha abbandonato la Chiesa, anche la Chiesa ha abbandonato l’umanità. Rispetto alla pretesa che l’unica speranza sia data dalla scienza e dalla politica (passando da Bacone alla Rivoluzione francese, a Marx e fino al post-marxismo), il Papa sostiene che la Chiesa moderna, assecondando una tendenza luterana, ha cominciato a dire che la speranza cristiana è individuale o privata - perché riguarda il destino ultraterreno dell’anima - e che il mondo ha le sue speranze, che si basano su ciò che l’uomo è capace di fare con le sue sole forze. Per cui la fede non è negata, ma non è più incidente…

Irrilevante, dice il Papa: «Non è che la fede… venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello - quello delle cose solamente private e ultraterrene - e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l’attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana».

Esposito. Il Papa invita tutti, fuori e dentro la Chiesa, a ripensare la questione decisiva, perché tutti hanno creduto che si potesse costruire il mondo mettendo da parte il problema del significato. Con la conseguenza che si è perso il significato - reso sempre più astratto o sentimentale -, ma si è perso anche il mondo e l’interesse per esso. Senza significato, infatti, per che cosa saremmo liberi? Come qualcuno ha ipotizzato, saremmo liberi solo per il nulla.

Bersanelli. Il decadimento dell’uomo nasce da quella che lui chiama “correlazione tra scienza e prassi”. Quasi che il meccanismo naturale, posseduto attraverso la scoperta scientifica, pretendesse di diventare il principio che muove l’uomo nel rapporto con la realtà, cosicché «il dominio sulla creazione che è dato all’uomo da Dio e perso nel peccato originale verrebbe ristabilito». Qui sta la faccia deludente di una mentalità che presume che la ragione scientifica possa rispondere al bisogno di redenzione, di salvezza. Lo vediamo molto bene a livello educativo: il giovane, lo studente, i nostri figli e noi stessi siamo inconsapevolmente legati a un’idea di bene e di realizzazione di noi stessi che parte da un meccanismo e non da una presenza che abbraccia la domanda infinita del cuore. Da questa posizione è difficile uscire, perciò il Papa invita ad allargare ragione e desiderio, secondo tutta l’ampiezza della loro natura.

Esposito. Agostino dice che quando speriamo desideriamo la felicità, ma se ci chiedessero che cosa sia, dovremmo ammettere che ci è ignota, perché ogni volta che cerchiamo di afferrarla ci sfugge. Nella cultura contemporanea questo significa che nel tempo si inaridisce la domanda: se cade sempre nel buio una possibile corrispondenza, dopo un po’ si atrofizza il domandare. E infatti all’uomo è impossibile mantenere tutta l’ampiezza del suo desiderio, a meno che incontri uno sguardo, qualcuno che cominci a segnare la traccia di una risposta. Per questo i passi a mio avviso filosoficamente più importanti della Spe salvi sono i racconti della schiava africana Bakhita e del martire vietnamita Le-Bao-Thin, perché dicono che un uomo può continuare a ricercare e a domandare, cioè a desiderare la felicità, solo se intuisce che è possibile una risposta, anzi se essa comincia a rendersi presente. Sono tutt’altro che racconti edificanti per suscitare emozioni.

Bersanelli. «La situazione dell’uomo, nello squilibrio tra la capacità materiale e la mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per l’uomo e per il creato». Il giudizio del cuore non è riferito al sentimento e all’emozione, ma a una ragione che sappia leggere l’esperienza umana nel suo rapporto con la realtà.

Avete accennato alla riduzione della speranza, umana e cristiana, a un fenomeno individuale. Possiamo ritornare sul tema?

Esposito. Tema apparentemente intraecclesiale, in realtà molto esistenziale. La speranza cristiana è comunionale: io non posso concepire il bene solo per me, ma anche per le persone che amo, e poi per il popolo cui appartengo, sino al mondo intero. Il Papa scrive che «il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia». La speranza è solamente in un infinito che si dà a noi e si gioca tutta in una nostra responsabilità. Nella filosofia contemporanea, alla posizione di Bloch aveva risposto un altro filosofo, Hans Jonas, sostenendo che il problema non è tanto la speranza, bensì la responsabilità, contrapponendo però l’una all’altra. Questo dualismo nel cristianesimo è superato, perché nella misura in cui la speranza è un futuro che ti tocca ora, essa ti fa vibrare per l’ingiustizia e per il male, in un abbraccio commosso e realista fino al dettaglio, come quello che Cristo ha per il mondo.

Bersanelli. Il Papa porta lo sguardo anche sull’esperienza cristiana: «Il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e la sua salvezza. Con ciò ha ristretto la grandezza del suo compito». Al contrario, il compito è dentro tutto quello che facciamo: non è solo fare un discorso sulla salvezza degli uomini, ma percepirla come fatto presente, nella materialità della nostra vita, del nostro lavoro, dell’insegnamento e della ricerca; è portare verso il suo ultimo orizzonte tutta la mia umanità e tutta l’umanità che ho intorno; altro che fatto privato!

Esposito. Infatti proprio all’inizio dice che noi siamo “redenti” nella speranza. Quando noi diciamo “redenzione”, coloriamo questa parola o in un senso escatologico (il paradiso che sta al di là) o in senso morale. Mentre nella Spe salvi vi è una potente ripresa di quello di cui parlavano i filosofi antichi: redenzione è “salvare i fenomeni”. Tutto di me, anche il particolare, anche il mio male può essere abbracciato, meglio: è abbracciato ora, ed è questa la promessa presente del compimento. Diversamente, noi rischiamo sempre di proiettare la redenzione in un futuro, chissà dove e chissà quando, che non c’entra con l’uomo che sono ora, ma con quello che devo essere alla fine, quindi con la nostra capacità di un miglioramento morale: finalmente faremo quello che si deve fare!

Bersanelli. La salvezza di Cristo è la verità del presente, del rapporto con la cosa “imperfetta”: «Il Suo amore ci dà la possibilità di perseverare giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto». La speranza non sta nel superare l’imperfezione, ma nel riconoscere la verità presente dentro il segno, che è redento: diventa una cosa dell’altro mondo. Anche la conoscenza - scoprire i misteri dell’universo o dell’evoluzione sulla terra o dei fiocchi di neve che cadono dal cielo - è soddisfacente se è dentro questo essere segno di Lui. La speranza non è nel fatto che io so, ma nel fatto che, conoscendo, scopro l’amore da cui tutto viene («l’amor che move il sole e l’altre stelle») e questo accade nel presente. La posizione del Papa introduce una prospettiva diversa nella nostra posizione solita davanti a tutte le cose.

Esposito. È la stessa novità che verifichiamo rispetto alla cosa più vicina a noi, il nostro io, perché dà una densità nuova alla parola “vita”, la quale non è più una dinamica biologica, istintuale, che si proietta in idee e progetti, ma diventa finalmente esperienza. La realtà più mia, il mio stesso io, è un “dato” che porta in sé la traccia infinita del suo “donatore”. E l’esperienza piena della vita è potersene accorgere.

Ragione e libertà. «Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze ed è progresso verso la libertà perfetta», dice il Papa svelando la pretesa moderna.

Bersanelli. Il mio io è radicalmente dipendente - io non mi sto facendo da me! - e questa dipendenza trova un segno meraviglioso nel come è costruita la natura intorno a noi. In realtà proprio i risultati della scienza degli ultimi cinquant’anni ci hanno fatto vedere quanto siamo incredibilmente “dipendenti” dal punto di vista delle condizioni materiali della nostra esistenza. Siamo dipendenti dall’ambiente e dalla storia dell’universo, dall’epoca del plasma primordiale, quattordici miliardi di anni fa, a quando si sono formate le galassie, le stelle e il nostro pianeta. L’idea di superare la nostra dipendenza, anche a livello naturale, è pura illusione.

Esposito. Questa è davvero una rivoluzione impressionante attuata dal cristianesimo. Se ci pensiamo, le due parole che più indicano le gabbie dell’esistere - dipendenza e bisogno - vengono completamente risignificate, perché la dipendenza è una libertà di fronte a un tu, è un’esperienza amorosa, la scoperta di un significato che corrisponde al bisogno della vita della persona e della società. Aldilà, o meglio al fondo di tutte le teorie sulla dipendenza come alienazione e di tutte le analisi dei bisogni, materiali o spirituali, da Marx a Freud fino alla sociologia del post-moderno, se non arriviamo a individuare qual è l’ultimo bisogno, rimaniamo incastrati nei nostri tentativi utopici e impotenti di liberarci da esso. Oppure, come accade per i più, concepiamo noi stessi come un bisogno senza soddisfazione, come se uno avesse fame e teorizzasse che non ci può essere pane: è l’aridità del nichilismo.

Il tema della speranza si intreccia col desiderio dell’uomo moderno di essere protagonista, e in questo contesto si colloca il titolo del Meeting 2008: “O protagonisti o nessuno”. D’altra parte, da tempo don Carrón sottolinea che, per realizzare questo, l’uomo ha rotto il rapporto con la realtà, che non è stata più il termine della progressiva evoluzione e crescita dell’umano, ma un ostacolo da cui liberarsi, un limite da superare. Ma l’avere voltato le spalle a Cristo ha prodotto l’esito opposto di quello che si voleva ottenere, la distruzione dell’umano. E questo trova interessanti conferme nella Spe salvi. Ora, constatato questo, da dove si può ripartire? Nell’impresa filosofica e scientifica, che cosa riaccende la scintilla?

Bersanelli. Questa crisi del rapporto con la realtà a cui siamo stati condotti dalla storia e questa presunzione di protagonismo ha portato a un’aridità come tenore del rapporto con le cose. Otteniamo tante conoscenze, ed è come se fossimo come prima, esse non suscitano un istante di commozione. Nell’ambito scientifico quasi ci si vergogna che resti un residuo di commozione di fronte a ciò che osserviamo e scopriamo. È un’aridità che viene teorizzata e sempre di più vissuta, e questo provoca un’incapacità di collegare le cose, una difficoltà a vedere il quadro nel suo insieme. Il grimaldello per ripartire è una conoscenza amorosa: mentre faccio lezione, spero che i miei studenti imparando l’astronomia siano miei compagni nella commozione di fronte alle cose. Questo è un principio che ha conseguenze anche su come si immagina un progetto di ricerca, su come si organizza un gruppo di lavoro, su come si giudica del fallimento o del successo di un certo lavoro.

Esposito. La novità nel rapporto coi miei studenti è che si riaccende l’interesse per il proprio io. Quando parliamo della verifica nella realtà, tante volte noi pensiamo la realtà come a un livello “notarile”, come la massa di tutte le cose fuori di noi di cui possiamo fare l’elenco: ma questa è l’ontologia nichilista. Invece la realtà è una cosa che accade a me, e fa parte integrante della realtà il fatto che io sia toccato da essa e la capisca. La realtà mi corrisponde, se io corrispondo a essa: è un vero incontro! Lo dico sempre ai miei ragazzi: la ricerca filosofica non avrà mai fine, perché ogni generazione, anzi ogni uomo è chiamato a rendersi conto che la realtà è come se aspettasse ciascuno di noi, il tuo sguardo, il tuo “sì” per essere quello che è. Se c’è questo sguardo, accadono cose imprevedibili, che a priori non si potevano vedere. Le idee nascono così. Il Mistero non è un enigma, ma una cosa assolutamente ragionevole: è quello che si sprigiona quando un io incontra il reale. Questa è la bellezza della ricerca filosofica.

Speranza e fede. Tanti scaricano sulla speranza il compito di produrre una certezza sulla vita, illudendosi che se cambieranno le circostanze, le cose andranno meglio. Il Papa afferma che il cammino è inverso: o c’è qualcosa nel presente o la nostra speranza è una pretesa di cui vediamo i frutti deludenti. In Si può vivere così?, don Giussani dice che «la certezza del futuro è basata su una cosa presente che riconosci con certezza», e affronta da subito la questione della fede. Come l’enciclica aiuta ad approfondire il tema della fede?

Bersanelli. Spesso e volentieri si riversa la speranza su un futuro: “Vedrai vedrai che domani cambierà” dice una canzone. Questa è l’unica amara possibilità che resta quando non c’è un’esperienza di fede, un fatto riconosciuto e risolutivo. Auspicare irrazionalmente un futuro migliore nasce dalla mancanza del riconoscimento di un fatto riconosciuto come risolutivo ora, non nel senso che risolve tutti i problemi, ma che risolve il mio bisogno ultimo, la mia solitudine di fronte alla domanda di chi sono. Ed è imbattermi in chi risolve questo che mi dà speranza.

Esposito. Vivere è sempre un essere proteso in avanti; l’uomo è un fascio di desideri, di tensioni, di attese. È questa inquietudine, a livello naturale, la sua grandezza. Ma ogni attesa, come ci richiama il Papa, vibra di una memoria; e la memoria è la coscienza nel tempo di quello che mi è stato dato e che mi è dato, ora. Solo questo mi consente, realisticamente, di continuare a essere proteso in avanti. La fede non chiude la questione umana, ma lancia l’io, come diceva don Giussani, nell’universale paragone; essa è come il filo a piombo che misura la profondità di ogni istante. Il cristiano può protendersi in avanti perché c’è uno che lo tiene, e che è Padre.

Bersanelli. È bello vedere che questo trasforma e innalza l’interesse per le cose normali, quotidiane. Nella curiosità e nell’affezione al lavoro, al rapporto coi colleghi, alla riunione per il lancio del satellite, che cosa si inizia a desiderare in queste piccole cose? Che siano veicolo della speranza, segno per me e per chi ho intorno di quella speranza che muove tutto. Cresce il desiderio che attraverso quel particolare imperfetto, effimero, si riveli il volto di quella Presenza che sostiene la speranza.

Esposito. Per questo il Papa cita una frase stupenda di Agostino, e cioè che il vero esercizio del desiderio è la preghiera. Filosoficamente parlando, laicamente parlando, la trovo una posizione ineccepibile, perché a un certo punto capisci che puoi sperare veramente solo se dici a quello «sconosciuto conosciuto» da cui attendi tutto: «Vieni!».

© Copyright Tracce n. 1/2008

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