25 giugno 2007

La vera storia della conversione dell'imperatore Costantino (274-337 d.C.)


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Rassegna stampa del 25 giugno 2007

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Grazie a Federico per la segnalazione di questo bellissimo articolo!
Raffaella


CRISTO SECONDO UN ATEO

Veyne è un grande storico dell’antichità. Marxista, nicciano, anche anticristiano, ma curioso dei fatti nella loro oggettività. Ha scoperto che il cristianesimo è fantastico

di Marina Valensise

Doveva essere un laico integrale, un non credente dichiarato, uno storico dell’antichità, uno dei massimi ancora viventi, studioso di Roma, dell’impero, dei gladiatori, della politica del panem et circenses, ex marxista, ex comunista, nietzschiano, amico di Michel Foucault e intimo del poeta ermetico René Char, a spiegare come mai il cristianesimo sia una delle più belle avventure della storia dell’umanità.
L’impresa è opera di Paul Veyne, grande irregolare della storiografia francese, di quelli che scrivono divinamente, pur avendo insegnato a lungo all’Università per finire a quarant’anni al Collège de France, reclutato da Raymond Aron.
Lo ha fatto in un libro magnifico che si legge come un romanzo, pubblicato da Albin Michel e subito acquistato da Garzanti.
S’intitola “Quand notre monde est devenu chrétien (312-394)”.
Racconta per filo e per segno la conversione dell’imperatore Costantino, il quale, alla vigilia della battaglia contro Massenzio, fece un sogno, come sanno tutti gli studenti italiani, “In hoc signo vinces”, e decise di iscrivere sul proprio elmo e sugli scudi del suo esercito la croce, anzi il sacro crisma, e cioè la prime lettere del nome di Cristo, il X e la P greche intrecciate. Il 28 ottobre 312, inalberando il nuovo simbolo cristiano nella battaglia di Ponte Milvio, sconfisse Massenzio, l’usurpatore che aveva cercato di sottrarre al suo controllo Roma e le regioni d’Italia. E l’indomani sfilando vittorioso per la via Lata, cioè l’attuale Corso, alla testa delle sue truppe, l’imperatore convertito segnò la fine del paganesimo antico.
La conversione di Costantino fu uno degli eventi decisivi della storia occidentale, e persino mondiale, spiega Paul Veyne, con la tranquilla sicurezza dell’antichista sperimentato. “Fu l’atto più audace mai compiuto da un autocrate che decise di sfidare apertamente ciò che pensava la maggioranza dei suoi sudditi, mostrando sovrano disprezzo verso i culti pagani”.
Con lui il cristianesimo, religione di una minoranza di bizzarri originali, che pretendevano di attingere all’eternità dell’anima e alla virtù professata dai filosofi pagani, sulla base della fede in un unico Dio e nel suo figlio incarnato, divenne la religione dell’imperatore romano, uno dei quattro che all’epoca si dividevano l’impero.
Grazie alla conversione cristiana, Costantino, che allora aveva 35 anni, sconfisse i suoi nemici, pose fine alla divisioni dell’impero, consolidò il potere riunificandolo, introdusse il principio della tolleranza dei culti pagani, ma li svalorizzò senza nemmeno aver bisogno di proibirli. E se non fu lui a mettere fine alle persecuzioni dei cristiani, che erano già cessate due anni prima, fece del cristianesimo la religione di Roma, favorendo e foraggiando in tutti i modi la sua Chiesa e trattando i vescovi cristiani da “carissimi fratelli” in nome della nuova alleanza a servizo della “santa pietà eterna e inconcepibile del nostro Dio, (che) si rifiuta nel modo più assoluto di sopportare che la condizione umana continui a errare nelle tenebre”, come riportava Eusebio di Cesarea.
Il suo fu un gesto audace, inaudito, assolutamente straordinario. Costantino era convinto di essere stato scelto per decreto divino per svolgere un ruolo provvidenziale nell’economia della salvezza.
E con la sua conversione rivoluzionò la storia del mondo. La novità del libro di Paul Veyne, che torna ora su questa vecchia storia di millesettecento anni fa, è che lo fa senza partito preso, con mente libera, muovendo con coraggio intellettuale privo di pregiudizi per
cercare di capire l’audacia della conversione di Costantino e il suo perché, a partire dallo stato d’animo dell’imperatore, dalla sua intima convinzione, e in base a testi autentici eppure dimenticati, perché considerati un “tale oltraggio che la maggior parte degli storici l’hanno disdegnato nel loro imbarazzo, e quasi
non ne parlano”.
La forza liberatoria del libro è così evidente che viene spontaneo chiedersi come sia nato. “E’ nato contro me stesso”, risponde in vena di paradossi il vecchio Veyne, parlando dall’eremo di Bedoin, nella Valchiusa a quaranta chilometri da Aix en Provence, dove vive i postumi di un’operazione al ginocchio, accanto alla moglie malata e in mezzo ai ricordi di una vita di studi. “Sono totalmente miscredente e fra tutte le religioni se ce n’è una che proprio non sopporto per la sensibilità, l’umiltà, la familiarità è proprio il cristianesimo”, dice con una punta di compiacimento volterriano, comune in Francia a ogni intellettuale che si rispetti desideroso di “épater le bourgeois”. Ma da storico e da patito della neutralità del metodo storico alla Max Weber aggiunge subito: “Bisogna fare uno sforzo contro te stesso. Non credere alle leggende. Distruggere le leggende di sinistra, per le quali il Cristo non sarebbe mai esistito, e della destra, per le quali Gesù, lungi dall’essere il fondatore del cristianesimo fu solo uno degli ultimi profeti giudaici. Non bisogna essere né pro né contro. La cosa più difficile, però, quando sei un miscredente e un non simpatizzante è riuscire a capire dall’interno cosa si ha nel cuore e nell’animo quado sei cristiano. Il mio problema, in fondo, era come quello di un asessuato che cercasse di comprendere cos’è l’erotismo”.
Dice proprio così Paul Veyne usando una formula lievemente blasfema e per questo efficace. E si capisce che ha perso il pelo, ma non il vizio. Veyne infatti è lo studioso che ha teorizzato la conoscenza
“obiettale”. E’ l’epistemologo che dopo il sessantotto ha conquistato l’attenzione di Raymond Aron con un saggio contro le idee del Sessantotto su “Come si scrive la storia”. E’ il professore
che nel 1974 venne eletto al Collège de France proprio grazie a Aron, il quale, deluso dal sociologo Bourdieu, finì poi per rompere anche con lo stesso Veyne. E la rottura avvenne per motivi di incomprensione politico-filosofica.
“Come storico - racconta lo stesso Veyne in “Le quotidien et l’intéressant”, una specie di autobiografia in forma di intervista uscita da Hachette nel 1995 - “io cercavo di mostrare le differenze
che separano le epoche e che fan sì che le stesse parole non abbiano lo stesso significato per noi. Mi ritrovai davanti a un pubblico che sembrava assai irritato da queste banalità. I discepoli
di Aron mi obiettarono, con la più viva indigniazione, la permanenza dei valori. Sorpreso da quell’happening, mi voltai verso Aron, seduto in cattedra accanto a me, il quale mi rispose con freddezza. Al mio paese, alla visita importuna di un vicino si risponde lasciando abbaiare i cani. Capii il messaggio e mi curai di farmi dimenticare da Aron, e dimenticarlo”.
Veyne, come si vede, per essere incline all’obiettività del metodo storico, resta pur sempre uno scettico, uno che nega la razionalità della storia. E’ un nietzschiano che non disdegna di corteggiare l’irrazionale e di esporsi in prima persona per parlare di sé. E’ uno stendhaliano che rivendica la capacità di appassionarsi a cose che non riguardano i propri interessi, e ama infarcire i suoi libri di egotismo, anche quando racconta “la brouille” metodologica col suo scopritore. Lo fa, credo, per stigmatizzare la famosa oggettività di Aron, inficiata ai suoi occhi da una forma di “patriottismo gregario”, da “un precauzionismo portato all’estremo”, “dall’inquietudine per la coesione sociale”, dalla paura del conflitto e del disordine, dalla pretesa di combinare il filosofo e il politico, lo studioso imparziale e il consigliere del principe, il teorico e l’opinionista, che secondo lui era la vera cifra di Aron, e dal desiderio di accreditarsi come l’uomo della ragione, estraneo al fanatismo, sino a minimizzare la distinzione di Weber tra giudizi di fatto e giudizi di valore, e dunque eludere la regola della neutralità assiologica.
Aron, ricorda Veyne, “incuteva rimorsi e sensi di colpa a chi non la pensava come lui”. Il suo racconto della lite è un ottimo esempio di come in Veyne la propensione all’oggettività non escluda affatto il soggettivismo, o il narcisismo, come dice lui che aborre il termine, pur facendone ampio uso, quando racconta per esempio il suo incontro mercenario con una prostituta, che diventa un incontro d’amore, e quando rivela l’entità del suo reddito netto dopo 40 anni di carriera, o quanto insiste, ora, nel ricordare che la sua passione per l’antichità nacque per caso, dalla scoperta di un pezzo di anfora tra le colline della Valchiusa, che riportò a casa come un trofeo e mise sottovetro al posto del bouquet di nozze della madre, incorrendo in una punizione esemplare.
Così slittando da un piano all’altro, e passando con maestria dall’ “obiettale” al soggettivo, Veyne è riuscito nell’impresa impossibile di spiegare, da ateo e miscredente, cosa succede nella testa di un imperatore pagano che scopre la fede in Cristo. “Credo di essermi almeno avvicinato”, dice Veyne con schivo candore.
Di sicuro pensa al capitolo in cui descrive “il capolavoro del cristianesimo primitivo”. Ne spiega il successo per l’originalità di una religione dell’amore, per l’autorità sovrumana che emanava dal Signore Gesù, per l’intensità di vita che raggiungeva colui che riceveva la fede, perché “ogni suo moto interiore, ogni gesto, ogni azione poteva prendere un senso e una direzione, verso il bene o verso il male, un senso che l’uomo, a differenza dei filosofi, non sceglieva da solo, ma seguiva orientandosi verso un essere assoluto, che non era un principio, ma un grande essere vivente”.
E’ per questo che il suo libro, come lui stesso riconosce, è tanto piaciuto ai cristiani, che si riconoscono nel “capolavoro” della nuova fede religiosa e nella passione inedita tra il divino e l’umano.
Veyne infatti descrive con un esempio triviale l’abisso che separa il cristianesimo dal paganesimo. “Una popolana può andare a raccontare le sue pene coniugali alla Madonna; se fosse andata a raccontarle a Era o Afrodite, l’antica dea si sarebbe chiesta cosa gli fosse saltato in mente a quella pecora di sottoporle questioni di cui non sapeva che fare”. Veyne parla del rapporto appassionato di amore e autorità, consustanziale a Dio e all’uomo. “Quando un cristiano pensa al Dio misericordioso che si è sacrificato per gli uomini, e si appassiona per la sorte dell’umanità, delle singole anime, sa che continua ad essere amato e considerato da lui. Mentre gli dei pagani vivevano prima di tutto per se stessi”.
Ma le cose che scrive son piaciute anche ai laici che non vogliono sentire parlare di radici cristiane. “La nostra epoca, dice Veyne, è postcristiana. E mi dispiace non aver usato l’aggettivo, per descrivere una civiltà come la nostra dove imperano il femminismo, il socialismo, la libera sessualità, e le radici cristiane non signficano niente. Molti lettori mi hanno ringraziato di questa messa a punto. In realtà noi siamo come una vecchia famiglia che ha dimenticato i valori cristiani dei suoi antentati, ma continua a vivere in una vecchia casa piena di affreschi, di chiese e cattedrali, e continua a proteggerle come un patrimonio, anche se le radici non esistono più, perché sono morte”.
Quanto alla contentezza dei credenti in Francia che si rallegrano dell’obiettività dello storico miscredente, davanti al
capolavoro cristiano, Veyne non prova alcun fastidio. Non è uno di quegli anticlericali ossessivi che devono smarcarsi dalla chiesa. Ma cita il detto di René Char: “On ne fait pas d’objection à un homme ému”. E glossa:“Non puoi spiegare a un innamorato che la donna che ama è una cretina” . Il fatto è che Veyne è un irregolare, del tutto privo di tabù, che riconosce senza complessi la sua dinamica intellettuale apparentemente bizzarra: “Non avrei passato quindici anni della mia vita a studiare paganesimo e cristianesimo, se non avessi avuto una sensibilità religiosa”. E lui che vive a due passi da Carprentras, nella terra della cattività avignonese, dove ogni pietra trasuda ancora religiosità, sa di che parla. “In un villaggio vicino a casa mia vive un convertito al buddismo, un tipo di 25 anni, che sa a malapena leggere e scrivere. C’è una famiglia di evangelici, che la domenica si riunisce con centinaia di altri fedeli in una chiesa per fare ‘parlare la lingua’. E in stato di trance si mettono a farfugliare suoni incomprensibili, tipo questo per esempio”. E Veyne, professore al Collège de France, studioso di Seneca e di Simmaco, mima per telefono lo stato di trance verbale sbattendo le labbra in suoni inconsulti come “ebbbabbabebbbaessccciimmema”.
Spiega che parlano lingue che non hanno mai imparato grazie allo Spirito Santo.” Li ho visti coi miei occhi, nessuno può negare che la maggioranza della popolazione abbia una sensibilità religiosa.
E se non lo capisci, non puoi spiegare l’importanza del cristianesimo nella storia dell’umanità”.


Per lui, dunque, la conversione di Costantino non è il gesto di un politico machiavellico disposto a tutto per consolidare il proprio potere, come a lungo si pensò. E’ il segno di un’adesione autentica a una fede nuova, a una religione rivoluzionaria e irresistibile anche per un imperatore romano, cresciuto nel politeismo pagano.

“Ci sono vari stadi, spiega l’antichista. Un imperatore romano, come Nerone, può fare quello che vuole in termini religiosi.
Può avere una religione personale, indipendente da quella dei sudditi. Ma alla storia della conversione di Costantino per puro opportunismo nessuno ci crede più. Gli storici ormai, son tutti d’accordo per dire che fu sincera e personale.
Io sono andato oltre, per cercare di capire in cosa creda uno che si converte. E ho scoperto che questa sincerità non è banale. E’ il portato di una scelta delirante di tipo escatologico, come quella di Trotzki e Lenin alla vigilia della rivoluzione bolscevica, quando
capirono che il potere dei soviet avrebbe cambiato il corso dell’umanità e la storia mondiale”.
Veyne lo dice e lo scrive anche nel suo libro, in lunghe note di commento a piè di pagina. E la cosa non ha niente di banale per un vecchio militante comunista come lui, che aderì al Pcf a vent’anni, nel 1951, quando salì a Parigi per frequentare l’Ecole Normale e cominiciò a legare con Michel Foucault, Gérard Genette, Jean Claude Passeron, i mattacchioni del Saint Germain de Près marxista. Fu allora che si mise in testa di sfuggire all’infamia del collaborazionismo vissuto in famiglia, praticato da un padre, piccolo impiegato di banca diventato ricco grazie al commercio di vino. Rimase comunista fino al 1956, fino all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa, sognando e mitizzando sul Pci, il partito di Togliatti, ben più eretico, più libero, più aperto di quello francese, salvo mostrare sorpresa alla smentita della leggenda consegnata agli archivi. “Non posso crederci, che sia stato Togliatti a far pressioni sui sovietici per l’intervento in Ungheria”, dice oggi Veyne, sentendo parlare per la prima volta dei lavori di Zaslavsky e Aga Rossi .“Tornando a Trotzki”, insiste
Veyne,“era davvero convinto che il comunismo avrebbe cambiato il corso dell’umanità.
Io ho conosciuto la stessa cosa a vent’anni, e poi come allievo di Louis Althusser, il professore della Ecole Normale che dopo l’Ungheria cercava, da profeta comunista, di rimettere il marxismo sui binari della storia. E il fatto che i russi venissero fucilati in massa, per Trotzki, come per Althusser, non cambiava nulla alla loro fede religiosa, all’idea di cambiare il corso della storia umana per costruire la felicità dell’umanità. L’imperatore Costantino visse la stessa identica fede, solo sul piano metafisico. Gli altri pensavano al partito. Lui era convinto che grazie alla chiesa avrebbe orientato l’umanità verso la salvezza, per realizzare un disegno provvidenziale”.
In questo senso, dunque, sbaglia secondo Veyne chi s’ostina nell’interpretazione di Edward Gibbon, che sulla scia di Voltaire associò la caduta dell’impero romano al cristianesimo. “Gli storici hanno rappresentato i cristiani come personaggi senza consistenza, senza spina dorsale. Ma non è così. L’impero romano è crollato nel 406 per le invasioni barbariche. Costantino, pur essendosi convertito, anzi grazie alla conversione, fu uno dei grandi riformatori dell’impero. Combatté Licinio, riformò l’esercito, ripristinò il senato e le istituzioni romane. La prova è che l’impero, nostante il cristianesimo, tenne per quasi un secolo dopo di lui. Crollò, lo ripeto, per un puro incidente, frantumandosi come un vaso in mille pezzi quando i barbari invasero i confini da tutte le parti”. Quanto a Gibbon, dice Veyne, ha concepito la decadenza dell’impero romano pensando all’impero bizantino.
“Ha confuso Costantino con un imperatore bizantino. In realtà, lungi dall’essere una figura della decadenza, Costantino fu un visionario, che si mise in testa di tollerare il paganesimo, senza colpire gli alti funzionari pagani, ma tacciando di imbecillità le loro superstizioni e i loro culti. Fu un pragmatico, che vietò i sacrifici rituali, anche se non poté sopprimere il culto delle vestali. Nessuno sa se il giorno della vittoria a Ponte Milvio quando salì in Campidoglio sacrificò a Giove, come era costume. Ma a
partire dalla sua conversione, l’orrore fisico del sangue nei sacrifici, il culto offerto ai demoni come una magia nera, divenne insopportabile. Fu allora che cominciò a imporsi la chiesa cristiana, e la religione che pose fine ai sacrifici, col sacrificio di Cristo morto in croce per salvare l’umanità, poté cambiare la faccia del mondo”.

© Copyright Il Foglio, 23 giugno 2007

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie Lella!
Sei la numero 1...niente da aggiungere.
Federico