30 marzo 2007

Lo speciale di "Repubblica" sull'inferno


Vedi anche:

"Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei"

"Ratzinger, con quel volto da fanciullo ottantenne..."

"Commenti e riflessioni..."

"La misericordia e la responsabilita'"

"Ancora sull'inferno..."


I dannati dalla Chiesa

Perché il papa ne riafferma l´esistenza

La religione l´arte e la letteratura ne hanno spesso descritto significato e funzione
Ecco la storia di un "non luogo" speciale con il quale l´umanità si è dovuta misurare


PIERO CODA

È senz´altro paradossale che il nostro tempo, che forse come nessun altro ha sperimentato abissi indicibili d´ingiustizia e malvagità come quelli perpetrati nei lager nazisti, sia tentato di non meditare più sulla possibilità reale dell´inferno. Certo, rappresentazioni ingenue e insistite del passato non aiutano a collocare in una luce pertinente e convincente questo concetto che fa parte del bagaglio irrinunciabile dell´esperienza cristiana, ma anche e innanzi tutto umana. Che il male vada infine sceverato dal bene e che vi debba essere un giudizio finale che ripari i torti subiti che la storia non riesce a far quadrare, rivelando le vere intenzioni dei cuori e dicendo pane al pane e vino al vino, è un postulato difficilmente contestabile della nostra esistenza.
La fede cristiana non contraddice questa percezione e questa speranza. Ne dilata, piuttosto, e ne rischiara in modo inatteso l´orizzonte di esperienza e comprensione. Il messaggio di Gesù è "vangelo": la "bella notizia", cioè, secondo cui Dio è sino in fondo e unicamente desiderio di bene nei confronti dell´uomo. Tanto che egli è venuto, appunto, «non per condannare, ma per salvare» (cfr. Gv 12,47), offrendo l´aiuto indispensabile per edificare la propria esistenza e quella della comunità umana secondo una misura pienamente umana. Il che esige un´adeguata assunzione di responsabilità. In altre parole, il messaggio di amore che viene da Dio all´uomo in Gesù, e in cui l´uomo ritrova il meglio di se stesso, non avrebbe significato se l´uomo stesso, come Dio che l´ha creato e lo vuole compagno di vita per sempre, non fosse libertà. «Se la libertà non è reale - scriveva all´inizio del secolo scorso Pavel Florenskij - , nemmeno l´amore di Dio per la creatura è reale».
Di qui, dall´amore di Dio che esige la libertà dell´uomo, lo spalancarsi di quell´abisso che è la possibilità reale di dire no al destino che realizza ogni persona. Se la possibilità di dire questo no non vi fosse o fosse una semplice illusione, l´uomo non sarebbe uomo e Dio non sarebbe Dio. Ciò non significa brandire in modo terroristico la possibilità di questo no, nella sua terribile definitività, per imporre alcunché. Significa al contrario richiamare alla serietà della nostra responsabilità e all´inesauribile efficacia della misericordia di Dio che col perdono sempre di nuovo rende disponibile la chance di ricominciare come fosse la prima volta.
È Gesù stesso, a ben vedere, che offre non a parole ma col dono di sé senza condizioni sul legno della croce la misura ultima di questo dramma segnato dal marchio della speranza. «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21): così l´apostolo Paolo. Al seguito di Gesù, Paolo stesso potrà spingersi a esprimere l´ardente desiderio di farsi egli stesso "anatema" per salvare i fratelli: attestando la sua volontà - conforme a quella di Dio stesso - di autoescludersi dal beneficio della salvezza se ciò fosse necessario per strappare qualcun altro alla pena eterna. Una volontà e una preghiera che, lungo i secoli, non di rado troveranno eco nell´esperienza e nelle parole dei discepoli di Gesù. A partire da ciò il teologo Hans Urs von Balthasar ha espresso e argomentato la speranza che nessuno si perda per sempre: l´inferno è una reale possibilità, ma non è detto che essa si verifichi. Non a caso - egli chiosa - «la Chiesa, che ha canonizzato tante persone, non si è mai pronunciata sulla dannazione di alcuno. Neppure su quella di Giuda».
In fin dei conti, è proprio la definitività dell´amore di Dio per la sua creatura manifestato senza ambiguità nel Crocifisso a decretare, al negativo, la possibilità reale di potersi liberamente e definitivamente chiudere a questo amore. Non è un caso che prima di Gesù, pur conoscendo la tradizione ebraica il concetto del giudizio finale di condanna dei reprobi, la realtà degli inferi permanga in una quasi strutturale situazione d´indecisione: come luogo delle ombre in cui convivono e i giusti in attesa di salvezza (e di risurrezione) e i malvagi in attesa di inappellabile giudizio. Solo la discesa di Gesù agli inferi - come recita il Simbolo della fede - dà definitività al luogo (che è uno stato) del rifiuto opposto a Dio. Definitività che deriva dal fatto che solo di fronte a lui, in cui Dio ha pronunciato il "sì" escatologico della misericordia per gli uomini d´ogni tempo e d´ogni luogo, la decisione finale - non di Dio, ma dell´uomo stesso - può esser presa come autogiudizio senz´appello nei confronti della grazia della salvezza.
Ma, al tempo stesso, definitività escatologica che crea - se così si può dire - una nuova situazione d´essere: quella anticipata, nel chiaroscuro del presentimento, dall´esistenza umbratile degli spiriti che esistono, ma in uno stato che è solo l´impronta vuota d´una esistenza vera. Sì, per la fede cristiana è solo perché Cristo, col suo esporsi nell´amore sino alla fine, scende nel baratro del rifiuto di Dio, che tale rifiuto riceve il sigillo dell´irrevocabilità. Egli, ascendendo nell´evento della risurrezione al seno di Dio che è Padre, donde è uscito, accompagna con sé in libertà coloro che gratuitamente ha strappato dagli inferi del non amore. Ma il suo esser disceso in quel fondo, ha al tempo stesso eternizzato la possibilità del non amore che è non vita. «Padri e maestri - esclama lo starec Sosima ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij - , io mi domando: Che cosa è l´inferno? Io affermo che è il tormento di non essere capaci di amare».
Non si tratta di speculazioni astratte o remote dalla vita. Forse mai come nel nostro tempo - dicevo all´inizio - si sono sperimentate a livello personale e sociale le torture dell´angoscia esistenziale e della malvagità collettiva: veri anticipi dell´inferno. Sapere che Gesù Cristo vi s´è calato dentro, sino all´abisso, e ha redento l´irredimibile, è speranza che si può sempre ricominciare. E che l´amore di Dio ci prende terribilmente sul serio: perché il suo amore, che è libertà, giunge al punto da rendere definitivo - se lo vogliamo - l´antirealtà del non amore. Dunque, niente come la possibilità reale dell´inferno dice, in Gesù, l´amore di Dio e la libertà dell´uomo.


Dalla geenna al vuoto, storie di oltretomba

Tra l´antichità e l´Alto Medioevo si elaborò la teoria del damnum, che in origine significava "perdita", "disgrazia". Da lì nacque il concetto di dannazione
E´ certo che sarà lo stesso fuoco a colpire uomini e demoni, come Cristo ha detto: "Via, lontano da me, maledetti..."
L´immagine comune dell´inferno è quella di fuoco. Il daimon stesso è sempre stato tradizionalmente associato al fuoco
Non so che mai sia l´inferno; io soggiorno da sempre in questo nonluogo; diciamo che ne sono un socio fondatore
Padri e maestri, io penso: "Che cos´è l´inferno?". Così lo definisco: "La sofferenza di non poter più amare
"

FRANCO CARDINI

La parola "Inferno" indica evidentemente, in latino, quello che sta in basso o sottoterra; ciò già nell´antichità romana indicava un´idea della vita oltremondana come di una prosecuzione in un luogo immaginato come nelle profonde viscere della Terra.
Con la parola infernus i traduttori latini della Bibbia ebraica intesero tradurre il concetto ebraico di she´ol; ma esso qualificava nella tradizione ebraica, più che un luogo, la condizione del sonno in cui l´anima umana veniva avvolta dopo la morte in attesa del giudizio universale.
Dal momento che ebrei usavano inumare i loro defunti, questa idea si avvicinava abbastanza agevolmente e spontaneamente a quei concetti dell´Oltretomba come luogo sotterraneo, che erano vivi nelle culture egizia e, con qualche difficoltà in più anche assiro-babilonese.
Il Nuovo Testamento, per la verità, non insiste tanto sul concetto ebraico di she´ol, luogo del sonno mortale quanto di geenna, che si potrebbe definire come un luogo di punizione e di sofferenza caratterizzato dalla presenza di un fuoco ardente e di un buio profondo. La geenna, infatti, corrispondeva ad una specie di valle infossata, a sud-ovest delle mura di Gerusalemme, dove si bruciavano i rifiuti e dalla quale emanava sempre un grasso fumo ed un acre odore.
Un luogo quindi, per definizione impuro e sgradevole. Gesù condanna alla geenna, "dov´è piano e stridore di denti", i peccatori impenitenti.
Con queste premesse si comprende come i cristiani che si convertirono alla nuova fede alcuni decenni dopo la morte di Gesù, e che non provenivano dal mondo ebraico bensì dalle varie culture che componevano il mosaico ellenistico-romano, adattarono la loro idea di Inferno a quelle credenze che li avevano caratterizzati prima della conversione. In effetti i greci ed i latini immaginavano un "erebo", cioè un luogo sotterraneo triste e tenebroso, nel quale le anime dei defunti conducevano una vita quasi sospesa a metà tra l´evanescenza e l´inesistenza. Era questo il tristo "Hades", una cui sezione specifica, il "Tartaro" era preparata per chi in vita si era reso responsabile di colpe particolarmente orribili come l´omicidio, il tradimento, l´empietà nei confronti degli dei. Sappiamo d´altra parte che i defunti privilegiati o particolarmente meritevoli, gli Eroi, avevano una dimora eterna caratterizzata da dolci venti, praterie fiorite e alberi da frutto: i Campi Elisi. Anche tale dimora era caratterizzata dalla tristezza che sempre avvolgeva chi, essendo defunto, aveva in realtà perduto l´unica vita pienamente degna di essere definita tale, cioè quella terrena. Gli Elisi erano comunque, se non altro, un luogo piacevole ed esente dal dolore.
I cristiani elaborarono pertanto una dottrina dell´Oltretomba che in un certo senso univa in una sorta di acculturazione l´idea ebraica del sonno dopo la morte, quella vetero-testamentaria della punizione dei malvagi e quella pagana greco-romana della sofferenza spettante a chi si fosse reso responsabile di colpe o di infrazioni rituali.
Tra antichità ed Alto Medioevo si elaborò la teoria del damnum, che originariamente significa "perdita", "disgrazia". Da lì nacque appunto il concetto di dannazione, inteso soprattutto come privazione eterna della visione di Dio. Le pene fisiche, in realtà, venivano concepite come un´immagine analogica destinata a dare una lontanissima idea della sofferenza spirituale provata dai dannati a causa della lontananza dal Signore. Ma, per la dottrina che i cristiani avevano ereditato dagli ebrei, alla fine dei tempi tutti sarebbero resuscitati: ed i malvagi, i peccatori, avrebbero a quel punto rivestito la loro carne per proseguire la loro residenza nell´Inferno, eternamente. Dopo la resurrezione, naturalmente, le pene sarebbero veramente state anche fisiche oltre che spirituali.
Questa dottrina non si creò dal nulla: i suoi Padri principali sono Sant´Agostino che approfondì il concetto di pena eterna, San Giovanni Crisostomo che procedette a un´analisi del concetto di Inferno nel Nuovo Testamento, San Bernardo di Chiaravalle che sottolineò l´orrore della morte eterna come morte autentica, contrapponendola a quella puramente fisica che era solo un normale ed inevitabile incidente attraverso il quale si accedeva alla vita eterna ed infine San Tommaso d´Aquino che insisté sul carattere irremissibile dell´Inferno, dove le sofferenze non inducono i dannati al pentimento ma, anzi, li radicano nell´odio e dunque nella lontananza da Dio.
Naturalmente vi fu chi al contrario riteneva che il concetto di eternità dell´Inferno contrastasse con quello di infinita giustizia e di infinita misericordia divine. Alcuni padri della Chiesa, come Gregorio di Nazianzo, Origene e Giovanni Scoto Eriugena fecero osservare che l´uomo, data la sua stessa imperfezione e la sua strutturale finitezza, non poteva commettere un peccato, per quanto orribile, che meritasse una pena eterna; mentre tale concetto contrastava per sua natura con il principio cristiano di un Dio interpretato principalmente come Amore. L´idea, pertanto, che l´Inferno non potesse essere eterno e che alla fine gli stessi dannati sarebbero stati redenti, attraversò tutto il cristianesimo medievale e moderno, pur considerata come eresia, e giunse in Italia ad una affascinante anche se teologicamente poco sicura conclusione, che fu proposta da Giovanni Papini. Più di recente, il grande teologo Hans Urs von Balthasar propose una soluzione originale, che salvava l´idea dell´eternità dell´Inferno ma faceva al tempo stesso trionfare quella dell´infinita misericordia divina: l´Inferno c´è, ma è vuoto.
La riaffermazione della dottrina tradizionale cattolica da parte di Benedetto XVI viene adesso ad inserirsi in un processo di riconsiderazione di tutte le posizioni della Chiesa ispirate a fermezza dottrinale e volte, a quanto sembra, a combattere quelle tendenze alla modernizzazione che si erano negli ultimi decenni fatte strada. La riaffermazione di un Inferno eterno al quale chi si allontana da Dio non può sfuggire, rappresenta una scelta di campo coerente con il rigoroso richiamo alla disciplina ecclesiale che sembra caratterizzare il pensiero e l´opera dell´attuale Pontefice.


È tollerabile l´inferno in una visione etica?
La giustizia divina e la logica delle pene

San Tommaso, fonte eminente della mappa dantesca, suppone che l´inferno sia al centro della terra. Qui i dannati non vedono Dio e subiscono pene corporali

FRANCO CORDERO

Cosa sia l´inferno. Vediamolo nella Tabula aurea, indice ragionato dell´intero san Tommaso: «est horridus et tenebrosus et poenalis locus daemonum»; dev´essere un luogo, se contiene diavoli e dannati, i cui corpi accoglierà alla fine del mondo; Doctor Angelicus, fonte eminente della mappa dantesca, lo suppone al centro della terra («probabiliter»). La voce Damnatio, scandita in 66 lemmi, spiega quali cose vi succedano, in eterno: gl´inquilini coatti non vedono Dio e subiscono pene corporali (fuoco, tenebra, ecc.), oltre ogni pensabile dolore terreno, Passione inclusa. Che il fuoco non sia metaforico, lo dicono definizioni dogmatiche ricorrenti, vedi Enchiridion Symbolorum. Sul tema fioriscono una letteratura e sermonari classificabili nella clinica psicopatologica, tanto laide sono le fantasie che vi scaricano gli autori: roba da Cent Vingt Journées, ma Sade scrive con distacco scientifico mentre costoro sbraitano; e quanto sadismo connoti l´immaginario teologale, consta dall´insegnamento che gli spettacoli d´inferno completino la beatitudine celeste; dottori pudibondi mascherano l´argomento; terroristi del pulpito lo squassano con accenti da sabba stregonesco (anche Padre Paolo Segneri S. J., famoso quaresimalista).
Il punto è se l´inferno sia tollerabile in una visione etica. Cominciamo da Pelagio, monaco britanno tra quarto e quinto secolo: negando l´idea d´un peccato d´origine trasmesso col seme, sminuisce il battesimo; forte d´uno scomodo radicalismo evangelico, rifiuta ogni compromesso col potere ecclesiastico e politico; nella sua teologia elementare Dio è spettatore neutrale della partita dove ciascuno gioca le sue sorti. Ovvia la condanna ecclesiastica, sollecitata da sant´Agostino. Siamo al limite del cristianesimo ridotto a pura moralità, senza riti, misteri, gerarchie, effusioni mistiche, ma il giudice figura male anche lì, se lo postuliamo creatore onnisciente: cos´aveva in mente?; dispiega lo scenario terreno, sapendo dove finiranno innumerevoli animali umani, nelle fauci diaboliche; l´equanime fair play giudiziario non compensa l´obiettiva cattiveria del creare un mondo così regolato. Ma almeno è giusto, stricto sensu, se presupponiamo che venendo al mondo, uno sia padrone dei suoi destini. Qui stravince Agostino, molto superiore in acume analitico e talento speculativo: contro i manichei presupponeva una volontà sovrana; poi scopre la causalità psichica ed elabora la teoria della grazia; impresa d´altissimo segno scientifico; anticipa Freud, al quale mancano quattordici secoli. In lingua moderna diremmo così: la cosiddetta volontà è nome astratto delle volizioni; ognuna ha delle cause; l´atto scatta nel senso della pulsione prevalente; alcune risalgono all´Es (bacato dal peccato originale: Agostino le chiama concupiscentia), ma esiste una libido spirituale, gratia o caritas; la infonde Dio. Siamo degli automi: suo l´atto buono, nostri i peccati; formula ipocrita perché rimasto solo, l´animale umano pecca come i pesci nuotano o i gravi cadono.
Favola orrenda: fa tutto Lui, concedendo o no la santa libido da cui nascono gli atti virtuosi, delectatio victrix; sta fuori del tempo ma vi agisce continuamente, ad esempio iniettando l´anima agli embrioni (un poco tardive risultano le femmine, insegnavano i dottori d´una philosophia perennis); l´intera commedia cosmica, quindi, sviluppa i suoi piani; è autore, macchinista, scenografo, capocomico e invisibilmente conduce gli attori. Saltano agli occhi le differenze dal quadro pelagiano: là era giudice equo, coerente a una decisione crudele ante mundum; qui pratica nei millenni un passatempo psicopatico, feroce, stupido. Ai lettori moralmente sensibili manca il fiato: fabbrica cavie umane; le muove; avendo stabilito che alcune mosse siano peccaminose, decreta supplizi; li fa eseguire dai diavoli, suoi agenti (l´inferno preesiste all´uomo); e dopo tante migliaia d´anni non s´è ancora stancato. Nella nomenclatura medica gesta simili configurano pericolose malattie. Agostino se ne rende conto, infatti vela come può la scoperta non predicabile dai pulpiti (quando i monaci d´Adrumeto esigono una risposta netta, la elude): secondo lui, non abbiamo ragioni contra Deum, perché i discendenti d´Adamo compongono una massa damnationis; salvandone alcuni, gratis, l´Ingegnere cosmico esercita pura misericordia; tra le righe ammette però che fosse eterodiretto anche il capostipite nel paradiso terrestre; e l´ammissione viene esplicita a proposito degli angeli; i rimasti in cielo erano amplius adiuti ossia disponevano d´un soccorso particolare, automi anche loro. Non è questione nuova, come siano valutabili moralmente gli atti della persona che i teologanti chiamano Dio. L´aveva sollevata Giobbe nell´omonimo libro, soccombendo perché l´antagonista strapotente, abilissimo meccanico, ignora le misure etiche e ha poco discernimento intellettuale. Quando vi torna san Paolo (Epistola ai Romani, capitolo nono), la risposta fa rizzare i capelli: un vaso chiede conto al vasaio del come l´ha plasmato?; l´artefice dispone ad libitum del manufatto. Questa similitudine segna un punto infimo nella parabola etica del divino. «Sublime», esclamano i folgorati dallo spettacolo. Isidore Ducasse, nome d´arte Lautréamont, racconta invece a mano ferma una visione terrificante, ricalcata sul teorema biblico (Les chants de Maldoror, canto secondo).
La dottrina agostiniana diventa dogma, ma svuoterebbe le chiese se fosse predicata, perciò fiorisce un agostinismo spurio, fondato su paralogismi e vaniloqui. Le formule tridentine sono plateale contraddizione: solo lo Spirito Santo innesca l´atto buono, senza concorso umano; se però pecco, vado all´inferno perché peccavo volontariamente; come dire «piove e non piove». Inutile notare quanto sia tossica l´abitudine al discorso doppio. Non sarebbe meglio una religione coltivata come tensione etica, silenzio sull´ineffabile, compassione operosa, perché gli uomini condividono uno stato nient´affatto lieto? Forse converrebbe riscoprire l´umanesimo pelagiano, agli antipodi dell´ecclesiocrate Agostino.

Repubblica, 30 marzo 2007

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