22 marzo 2007

La testimonianza della fede e la bellezza della liturgia


Oggi si parla molto dell'impegno dei cattolici nella vita politica. Contemporaneamente si parla, a torto, di ingerenza della Chiesa nelle decisioni del Parlamento. Perche' a torto? Semplice! La Chiesa e' parte integrante della societa', ne e' una delle costole anche un virtu' delle nostre radici religiose e culturali. E' giusto chiederle di tacere? Ovviamente e' una domanda retorica :-))
Ci si stupisce del fatto che il Papa "non ci lasci in pace" e ci richiami spesso al dovere di testimoniare anche, e soprattutto, pubblicamente la nostra fede.
Ratzinger non ne parla solo ora che e' Papa. Anche in passato egli ha preso posizione sul tema solo che, all'epoca, la stampa non era pressata, come oggi, dall'esigenza di attaccare la Chiesa nel suo insieme perche' dice cose scomode.
Anche allora il bersaglio era il cardinale Ratzinger con il suo "vizio" di essere schietto ed onesto.


Ecco un discorso del 2003:

«La teologizzazione della politica diventerebbe ideologizzazione della fede»

L’intervento del cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede al convegno “L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma, il 9 aprile 2003

del cardinale Joseph Ratzinger

Resisto alla tentazione grande di rispondere alle interessanti osservazioni e riflessioni del senatore Francesco Cossiga, e mi limito ad introdurre la “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, per indicare qual è la posizione di fondo di questo documento che immediatamente parla ai cattolici – perché solo questi hanno una relazione di fede con la Santa Sede – ma che vuol far pensare naturalmente tutti. Secondo Paul Ricoeur far pensare è la cosa più nobile che la filosofia può ottenere, e quindi vogliamo far pensare senza imporre qualcosa. In ogni caso la posizione descritta nel nostro documento si potrebbe riassumere così: per noi, e cioè per la convinzione della Chiesa cattolica di tutti i tempi, la politica appartiene alla sfera della ragione, la ragione comune a tutti, la ragione naturale. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali, così ben descritte dall’antichità greca, le quattro virtù cardinali: la prudenza, la temperanza, la giustizia, la fortezza.
La convinzione che il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione e che deve comportare anche l’illuminazione della ragione, implica l’esclusione di due posizioni.
Esclude innanzitutto la teologizzazione della politica, che diventerebbe ideologizzazione della fede. La politica infatti non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo «Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio». In questo senso lo Stato è uno Stato laico, profano, nel senso positivo. Mi vengono in mente per esempio le belle parole di san Bernardo di Chiaravalle al Papa di quel tempo: «Non pensare che tu sia il successore di Costantino; non sei il successore di Costantino, ma di Pietro. Il tuo libro fondamentale non è il Codice di Giustiniano, ma è la Sacra Scrittura».
Questa, diciamo, giusta profanità, o anche laicità della politica, che esclude quindi l’idea di una teocrazia, di una politica determinata dal dettato della fede, esclude, d’altra parte, anche un positivismo ed empirismo che è una mutilazione della ragione. Secondo questa posizione la ragione sarebbe capace di percepire solo le cose materiali, empiriche, verificabili o falsificabili con metodi empirici. Quindi la ragione sarebbe cieca per quanto riguarda i valori morali e non potrebbe giudicarli, perché rientrerebbero nella sfera della soggettività, e non in quella dell’oggettività di una ragione limitata al verificabile, all’empirico, e positivista. Una tale mutilazione della ragione che si limita al constatabile, all’empirico, al verificabile e al falsificabile secondo metodi materiali, distrugge la politica e, come aveva detto il senatore Cossiga, la riduce ad un’azione puramente tecnica, che dovrebbe seguire semplicemente le correnti più forti del momento, sottomettendosi quindi al transitorio ed anche ad un dettato irrazionale. E questo è l’altro impegno del nostro documento: mentre da un lato escludiamo una concezione teocratica ed insistiamo sulla razionalità della politica, dall’altro escludiamo anche un positivismo per cui la ragione sarebbe cieca per i valori morali, e siamo convinti che la ragione ha la capacità di conoscere i grandi imperativi morali, i grandi valori che devono determinare tutte le decisioni concrete.
E in questo senso mi sembra che subentri anche un certo legame tra fede e politica: la fede cioè può illuminare la ragione, può sanare, guarire una ragione ammalata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisce il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla.
Le indicazioni che appaiono nella nostra Nota ai politici cattolici, riguardo ai valori che sono da difendere anche contro maggioranze di un momento, non vogliono essere una intromissione nella politica da parte della gerarchia. Ma vogliono essere un necessario aiuto alla ragione in modo che soprattutto i politici credenti possano nella discussione politica aiutare ad una evidenza comune e così ad una presenza reale e concreta dei valori che devono governare ognuno nella politica.
Grazie.

dalla Rivista "30 giorni"

Iluminante...qualcuno parla ancora di "Chiesa di Ratzinger" contrapponendolo ai predecessori?

E per quanto riguarda la liturgia, l'allora cardinale Ratzinger anticipa delle tematiche che poi Benedetto XVI elaborera' nella Sacramentum Caritatis:

Lo sviluppo organico della liturgia

In alternativa ai riformisti radicali e ai loro avversari intransigenti, uno sviluppo adeguato della liturgia è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”

di Joseph Ratzinger

Negli ultimi decenni, la questione della corretta celebrazione della liturgia è diventata sempre più uno dei punti centrali della controversia attorno al Concilio Vaticano II, ovvero a come dovrebbe essere valutato e accolto nella vita della Chiesa.
Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime sé stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come «progetto di riforma» (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici.
D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari. Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma.
Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge.
Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi, per incrementarla e rinnovarla.
Il libro di dom Alcuin Reid si colloca in questa linea. Percorrendo la storia del Rito romano (messa e breviario), dalle sue origini fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, esso cerca di stabilire quali siano i principi del suo sviluppo liturgico, attingendo così dalla storia, con i suoi alti e bassi, i criteri su cui ogni riforma deve basarsi.
Il libro è diviso in tre parti. La prima, molto breve, analizza la storia della riforma del Rito romano dalle sue origini alla fine del XIX secolo. La seconda parte è dedicata al movimento liturgico fino al 1948. La terza – di gran lunga la più estesa – tratta della riforma liturgica sotto Pio XII, fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. Questa parte si rivela molto utile, proprio perché tale fase della riforma liturgica non viene più molto ricordata, nonostante che proprio in essa – come anche nella storia del movimento liturgico, evidentemente – si ritrovino tutte le questioni circa le modalità corrette per una riforma, facendo sì che sia possibile acquisire anche dei criteri di giudizio. La decisione dell’autore di fermarsi alla soglia del Concilio Vaticano II è molto saggia. Egli evita così di entrare nella controversia legata all’interpretazione e alla ricezione del Concilio, illustrando il momento storico e la struttura delle varie tendenze, la quale risulta determinante per la questione circa i criteri della riforma.
Alla fine del suo libro, l’autore elenca i principi per una corretta riforma: essa dovrebbe essere in egual misura aperta allo sviluppo e alla continuità con la Tradizione; dovrebbe sapersi legata a una tradizione liturgica oggettiva e fare sì che la continuità sostanziale sia salvaguardata.
L’autore, poi, in accordo con il Catechismo della Chiesa cattolica, sottolinea che «anche la suprema autorità della Chiesa non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia» (CCC n. 1125; nel libro a p. 258). Come criteri ulteriori, troviamo infine la legittimità delle tradizioni liturgiche locali e l’interesse per l’efficacia pastorale.

Vorrei sottolineare ulteriormente, dal mio punto di vista personale, alcuni dei criteri già brevemente indicati del rinnovamento liturgico. Comincerò con gli ultimi due criteri fondamentali. Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l’essenza del primato, così come viene sottolineato dai Concili Vaticani I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell’autentica Tradizione e perciò il primo garante dell’obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l’agire ad libitum, ma l’obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il “rito”, e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l’insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione con coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di parádosis.
È importante a tale riguardo interpretare correttamente la “continuità sostanziale”. L’autore ci mette espressamente in guardia dalla strada sbagliata sulla quale potremmo essere condotti da una teologia sacramentaria neoscolastica slegata dalla forma vivente della liturgia. Partendo da essa, si potrebbe ridurre la “sostanza” alla materia e alla forma del sacramento, e dire: il pane e il vino sono la materia del sacramento, le parole dell’istituzione sono la sua forma; solo queste due cose sono necessarie, tutto il resto si può anche cambiare. Su questo punto modernisti e tradizionalisti si trovano d’accordo. Basta che ci sia la materia e che siano pronunciate le parole dell’istituzione: tutto il resto è “a piacere”. Purtroppo molti sacerdoti oggi agiscono sulla base di questo schema; e persino le teorie di molti liturgisti, sfortunatamente, si muovono in questa direzione. Essi vogliono superare il rito come qualcosa di rigido e costruiscono prodotti di loro fantasia, ritenuta pastorale, attorno a questo nocciolo residuo, che viene così relegato nel regno del magico oppure privato del tutto del suo significato.
Il movimento liturgico aveva cercato di superare questo riduzionismo, prodotto di una teologia sacramentaria astratta, e di insegnarci a considerare la liturgia come l’insieme vivente della Tradizione fattasi forma, che non si può strappare in piccoli pezzi, ma che deve essere visto e vissuto nella sua totalità vivente. Chi, come me, nella fase del movimento liturgico alla vigilia del Concilio Vaticano II, è stato colpito da questa concezione, può solo constatare con profondo dolore la distruzione di quel che ad esso stava a cuore.
Vorrei brevemente commentare altre due intuizioni che appaiono nel libro di dom Alcuin Reid. L’archeologismo e il pragmatismo pastorale – quest’ultimo, peraltro, è spesso un razionalismo pastorale – sono entrambi errati. Potrebbero essere descritti come una coppia di gemelli profani. I liturgisti della prima generazione erano per la maggior parte storici e, di conseguenza, inclini all’archeologismo. Volevano dissotterrare le forme più antiche nella loro purezza originale; vedevano i libri liturgici in uso, con i loro riti, come espressione di proliferazioni storiche, frutto di passati fraintendimenti e ignoranza. Si cercava di ricostruire la più antica Liturgia romana e di ripulirla da tutte le aggiunte posteriori. Non era cosa del tutto sbagliata; ma la riforma liturgica è comunque qualcosa di diverso da uno scavo archeologico, e non tutti gli sviluppi di qualcosa di vivo devono seguire la logica di un criterio razionalistico/storicistico. Questa è anche la ragione per cui – come l’autore giustamente osserva –, nella riforma liturgica, non deve spettare agli esperti l’ultima parola. Esperti e pastori hanno ciascuno il proprio ruolo (così come, in politica, i tecnici e coloro che sono chiamati a decidere rappresentano due livelli diversi). Le conoscenze degli studiosi sono importanti, ma non possono essere immediatamente trasformate in decisioni dei pastori, i quali hanno la responsabilità di ascoltare i fedeli nell’attuare con intelligenza assieme a loro ciò che oggi aiuta a celebrare i sacramenti con fede oppure no. Una delle debolezze della prima fase della riforma dopo il Concilio fu che quasi soltanto gli esperti avevano voce in capitolo. Sarebbe stata auspicabile una maggiore autonomia da parte dei pastori.

Poiché spesso, ovviamente, risulta impossibile elevare la conoscenza storica al rango di nuova norma liturgica, molto facilmente questo “archeologismo” si è legato al pragmatismo pastorale. Si è deciso in primo luogo di eliminare tutto ciò che non era riconosciuto come originale, e di conseguenza come “sostanziale”, per poi integrare lo “scavo archeologico” – qualora fosse sembrato ancora insufficiente – con “il punto di vista pastorale”. Ma che cos’è “pastorale”? I giudizi intellettualistici dei professori su queste questioni erano sovente determinati dalle loro considerazioni razionali e non tenevano conto di ciò che realmente sostiene la vita dei fedeli. Cosicché oggi, dopo la vasta razionalizzazione della liturgia nella prima fase della riforma, si è di nuovo alla ricerca di forme di solennità, di atmosfere “mistiche” e di una certa sacralità. Ma siccome esistono – necessariamente e sempre più evidentemente – giudizi largamente divergenti su che cosa sia pastoralmente efficace, l’aspetto “pastorale” è divenuto il varco per l’irruzione della “creatività”, la quale dissolve l’unità della liturgia e ci mette spesso di fronte a una deplorevole banalità. Con questo non si vuol dire che la liturgia eucaristica, come anche la liturgia della Parola, non siano molte volte celebrate, a partire dalla fede, in modo rispettoso e “bello” nel senso migliore della parola. Ma dato che stiamo cercando i criteri della riforma, dobbiamo pure menzionare i pericoli che negli ultimi decenni, purtroppo, non sono rimasti soltanto fantasie di tradizionalisti nemici della riforma.
Vorrei soffermarmi ancora sul fatto che, in quel compendio liturgico citato sopra, il culto è stato presentato come “progetto di riforma”, e cioè come un cantiere dove ci si dà sempre un gran da fare. Simile, seppure un po’ diverso, è il suggerimento, da parte di alcuni liturgisti cattolici, di adattare la riforma liturgica al mutamento antropologico della modernità e di costruirla in modo antropocentrico. Se la liturgia appare anzitutto come il cantiere del nostro operare, allora vuol dire che si è dimenticata la cosa essenziale: Dio. Poiché nella liturgia non si tratta di noi, ma di Dio. La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? In ogni riforma liturgica e in ogni celebrazione liturgica, il primato di Dio dovrebbe sempre occupare il primissimo posto.
Con questo sono andato molto oltre il libro di dom Alcuin. Ma credo che, comunque, sia risultato chiaro che questo libro, con la ricchezza dei suoi spunti, ci insegna dei criteri e ci invita a un’ulteriore riflessione. Per questo ne raccomando la lettura.

(traduzione di Lorenzo Cappelletti e Silvia Kritzenberger)

dalla Rivista "30 giorni"

Mi sembra straordinaria la riflessione sul ruolo del Papa, che non e' monarca assoluto e, come non puo' fare cio' che vuole, cosi' deve richiamare chi pretende di fare cio' che vuole.


Per un nuovo inizio del movimento liturgico
Sta per uscire in Italia, edito dalle Edizioni San Paolo, Introduzione allo spirito della liturgia, un libro del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, già pubblicato in tedesco e in inglese. Con il consenso dell’autore e della casa editrice, ne anticipiamo alcune pagine

di Joseph Ratzinger

Il volume Introduzione allo spirito della liturgia di cui anticipiamo alcune pagine, è l’opera del cardinale Joseph Ratzinger che le Edizioni San Paolo (240 pagine, lire 34.000) manderanno in libreria a febbraio. Il libro è uscito in Germania, col titolo Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, per i tipi della casa editrice Herder a gennaio del 2000 ed è già alla quinta edizione. A settembre negli Stati Uniti la Ignatius Press ne ha stampato la versione in lingua inglese (The spirit of liturgy). Presto dovrebbe apparire anche la versione francese.
Il volume è diviso in quattro parti, precedute da una Premessa. La prima è sulla essenza della liturgia. La seconda riguarda il tempo e lo spazio nella liturgia (da questa parte è preso il capitolo sull’“Altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia” che pubblichiamo in queste pagine). La terza parla di arte e liturgia. La quarta si interessa della forma liturgica.
Riguardo al tema della celebrazione della messa verso il popolo o meno, è da segnalare che nella Institutio generalis della terza editio typica del Messale Romano, già stampata ma che entrerà giuridicamente in vigore solo quando verrà pubblicato il Messale in questione, si trova una piccola variazione rispetto all’edizione precedente (1975). Nella nuova Institutio si specifica che la celebrazione verso il popolo «expedit ubicumque possibile sit». Questa aggiunta è stata letta da alcuni come un obbligo assoluto a celebrare verso il popolo. La Congre­gazione per il culto divino, con una nota dello scorso 25 settembre ha escluso questa interpretazione.

Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l’opera prima di Romano Guardini Lo spirito della liturgia, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana “Ecclesia orans”, a cura dell’abate Ildefons Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Questa piccola opera può a buon diritto essere ritenuta l’avvio del movimento liturgico in Germania. Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera “essenziale” (termine assai caro a Guardini); la si voleva comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita.
Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora – nel 1918 –, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva – grazie al Concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei fattori climatici, minacciato da diversi restauri o ricostruzioni, rischia di essere distrutto, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie tali da porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile un nuovo rispetto nel trattarlo, una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina.
Questo libro che ora presento al pubblico vorrebbe rappresentare un aiuto a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzioni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica. Solo che bisognava ripensare ciò che Guardini aveva elaborato alla fine della prima guerra mondiale riportandolo, in un contesto storico completamente diverso, alle problematiche, alle speranze e ai pericoli del nostro tempo. Come Guardini, anch’io non ho voluto sviluppare una trattazione o una ricerca di tipo scientifico, ma offrire un aiuto per la comprensione della fede e per una corretta attuazione della sua forma precipua di espressione nella liturgia. Se questo libro riuscisse a sua volta a essere di stimolo a qualcosa come un “movimento liturgico”, un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l’intenzione che mi ha spinto a tale lavoro sarebbe pienamente realizzata.

Roma, nella festa di sant’Agostino 1999

Joseph cardinal Ratzinger

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