27 marzo 2007

Aggiornamento rassegna stampa del 27 marzo 2007


Vedi anche:
"Rassegna stampa del 27 marzo 2007"

"Le ingiuste accuse di Marco Politi al Papa e alla CEI"

Nel primo pomeriggio verranno pubblicati alcuni articoli sull'omelia tenuta da Papa Ratzinger domenica scorsa.

Ancora sul discorso di Benedetto XVI

Il cristianesimo come ossigeno per l'Europa (anche) laica

Giacomo Samek Lodovici

Poiché Francesco Botturi ha già tracciato su Avvenire di domenica un lucido affresco complessivo del discorso del Papa sull'Europa, può essere utile focalizzarne un'indicazione capitale: «Non si può pensare di edificare un'autentica "casa comune" europea trascurando l'identità propria di questo nostro Continente». Infatti, per Benedetto XVI, come già per Giovanni Paolo II, tale identità è «storica, culturale e morale prima ancora che geografica, economica o politica; un'identità costituita da un insieme di valori universali, che il cristianesimo ha contribuito a forgiare […]. Tali valori devono restare nell'Europa del terzo millennio come fermento di civiltà», se l'Europa non vuole precipitare in un'esiziale «apostasia da se stessa».
In effetti, se si ripercorre la storia delle idee, si può cercare di mostrare che il cristianesimo è la linfa vitale dei più importanti valori dell'Europa e dell'Occidente; di quei valori che anche i non credenti ritengono decisivi e irrinunciabili. Certo, la nostra civiltà scaturisce da diverse sorgenti, ma l'eredità più importante è quella cristiana, come si evince dal seguente inventario di otto lasciti.
1) La dignità umana: il cristianesimo per primo ha conferito una dignità inviolabile ad ogni uomo, donna (che perciò è uguale all'uomo), bambino, quale che sia la sua cultura, ceto, religione, etnia, ecc.
2) La libertà individuale di ogni essere umano: nessuno uomo può essere ridotto in schiavitù ed è libero addirittura di fronte a Dio, libero di amarLo o vilipenderLo.
3) La premura verso tutti i malati: non è un caso che l'ospedale (come luogo dove vengono curati tutti i malati, nessuno escluso) sia stato gestito dalla Chiesa fino al XVIII secolo.
4) La solidarietà verso tutti i poveri, e non solo verso quelli del proprio gruppo, religione, ecc..
5) La sollecitudine verso tutte le vittime (cioè verso tutti coloro che versano in condizioni di oppressione, di ignoranza, di ingiustizia) e quindi il senso di colpa per gli eventuali crimini verso altre culture.
6) La dignità di ogni lavoro (mentre presso i Greci e i Romani solo l'attività intellettuale era veramente stimata): non è un caso che la scienza e la tecnologia si siano inizialmente sviluppate al massimo grado proprio in Europa.
7) La sensibilità ecologica, quale contrappeso ad un uso spregiudicato della tecnologia, perché per il cristianesimo l'uomo è sì l'essere più nobile, ma deve amministrare il mondo e rispettarlo perché non appartiene a lui bensì a Dio.
8) La separazione tra religione e politica («date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»): per il cristianesimo le leggi religiose non devono coincidere (come invece avviene nelle teocrazie) con le leggi dello Stato (devono coincidere solo quelle - per esempio la legge "non uccidere" - che sono contenute anche nella legge morale naturale e solo se vietano lesioni dirette e gravi del bene comune), e lo Stato non è la fonte della verità, del bene e della salvezza (come affermano i totalitarismi).
Arrestiamo qui, per limiti di spazio l'inventario, che resta necessariamente incompleto, ma forse sufficiente per mostrare che il cristianesimo è, anche per i non credenti, come l'ossigeno: non ci accorgiamo della sua esistenza, ma se esso si esaurisce il risultato è il soffocamento. Allo stesso modo, se il cristianesimo scompare, i valori che esso ha generato corrono un pericolo mortale. Dunque, ancora una volta, è vero, come diceva un laico come Benedetto Croce, che «non possiamo non dirci cristiani».

Avvenire, 27 marzo 2007


Il vecchio continente è morto La vera tradizione europea è negli Stati Uniti d'America

di CLAUDIO SINISCALCHI

Gli europei hanno divorziato dall'Europa. Le celebrazioni per il 50° anniversario della firma del Trattato di Roma sono state una cortina nebbiogena, dispensata ad ampie mani, per nascondere il fallimento. Ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Un ex ministro francese degli affari europei, Pierre Moscovici, ha provato a fare i conti con il fallimento del sogno di uno dei padri europeisti del suo Paese, Jean Monet. La sua Europa, ha scritto recentemente Moscovici nel libro "L'Europe est morte, vive l'Europe!", dopo cinquant'anni è morta e sepolta. C'è poco da suonare le trombe. La retorica europeista, che rimandi ai fondatori cristiani come Monet, De Gasperi e Adenauer, o a quelli laici come Altiero Spinelli, non serve a rianimare il cadavere. La miopia dei politici ha contribuito in maniera determinante ad accelerare il decesso dell'Europa. Gli intellettuali, in special modo i progressisti, come d'abitudine non hanno fatto mancare il loro contributo. E, alla fine, se dovessimo trovare il più convinto sostenitore odierno dell'Europa, bisognerebbe cercarlo nella figura di un austero teologo bavarese, Joseph Ratzinger, diventato papa Benedetto XVI. Difensore del futuro europeo lo è stato nel tanto deprecato discorso di Ratisbona, dove era risalito all'antica Grecia per rintracciare le origini della civiltà europea. Ha ribadito con forza sabato scorso che l'idea d'Europa al di fuori della cristianità non ha futuro. Ma alla sua visione si preferisce un'Europa multietnica e multireligiosa. Per capire la crisi dell'Europa, e il divorzio degli europei dalla loro storia e identità comune, chiunque può vederla rappresentata al cinema. Da pochi giorni è in programmazione, contemporaneamente in molti Paesi europei, e ovunque con grande successo soprattutto nella fasce giovanili, il film "300". Una mega-produzione nord-americana. Il film non narra una storia del vecchio West. Né è ambientato nella modernissima New York. Ci riporta indietro all'antica Grecia. Anno 480 a.C. I greci sono minacciati da un'imminente invasione persiana. Già una volta, dieci anni prima, il re Dario ha provato ad assoggettarli. E ancor oggi, di quel pericolo scampato, celebriamo la maratona. Adesso alle porte della Grecia c'è Serse, alla guida di un esercito imponente. Vuole riuscire laddove Dario ha fallito. Ma non ha fatto i conti con un uomo: Leonida, re di Sparta. E con 300 suoi fidi guerrieri, che si immolarono nelle strette gole delle Termopili, arrestando definitivamente l'espansionismo persiano. Leonida è stato più volte lodato da Erodoto nelle sue "Storie"; e il suo sacrificio è stato celebrato dal poeta Simonide in uno dei più famosi frammenti della poesia classica. Ma chi lo ricorda oggi re Loenida, eroe dell'Europa e della libertà? Gli europei? Macché: gli americani. Certo, lo fanno a modo loro. Nazione giovane priva di una millenaria storia, si impossessano dei miti della Vecchia Europa, greca, romana, cristiana, nordica, e la rimpastano con la celluloide. È la Nuova Europa stelle e strisce che scova, nel vaso del passato, spartani, gladiatori, crociati, scozzesi. Li mette in scena, fieri della propria identità di uomini liberi, onesti, coraggiosi, coscienti della missione loro assegnata, impegnati a mettere al riparo la nazione dai nemici che vogliono ridurla in schiavitù. Questi eroi, come Leonida, non hanno paura di battersi. Né conoscono la paura di morire. La guerra è il male necessario della loro esistenza. Gli europei non vogliono più fare la guerra. Preferiscono la pace, segno tangibile dove prospera la loro opulenza. E guardano le minacce che incombono sul proprio destino con rassegnazione. Delegano le responsabilità a Parlamenti sempre più vasti e ingestibili. Il Parlamento Europeo. Il Parlamento Mondiale dell'Onu. Anche Leonida dovette affrontare il Parlamento del suo tempo, che alla guerra preferiva un compromesso. Pure i religiosi si misero contro la sua volontà di battersi. Aggirò l'ostacolo con l'esempio del sacrificio estremo di chi vede nel giusto. Di guerra gli europei non vogliono sentir parlare. La guerra è affare degli americani. Gli europei davanti alle ipotesi di una guerra di civiltà scatenata dalla religione, scuotono il capo perplessi e infastiditi. L'Europa di De Gasperi e di Monet è morta, poiché non è riuscita a darsi una convincente identità. L'euroscetticismo, tra le genti, è un virus fin troppo diffuso. Prenderne atto non significa rinunciare al sogno dell'Europa. Significa fare i conti con la realtà, e ricominciare su basi nuove.

Libero, 27 marzo 2007


A proposito della prolusione di Mons. Bagnasco, ecco l'editoriale di "Avvenire":

L'atto iniziale di una presidenza
In quelle parole c'è quasi un programma

Dino Boffo

Inaspettatamente. In questo avverbio condensa la sua vicenda più recente l'arcivescovo Angelo Bagnasco, nominato il 7 marzo scorso presidente della Conferenza episcopale italiana. Una sorpresa anche per lui, par di capire, ma già in buona parte elaborata, se a distanza di venti giorni egli si presenta ai confratelli con una consapevolezza chiara circa i compiti della Cei. Una chiarezza che, nella prolusione illustrata ieri al Consiglio permanente, si accompagna ad una delicatezza che è propria del suo stile: inutile cercare nel testo qualche scarto di sufficienza, semmai è evidente la preoccupazione di accingersi ad un'opera che avrà - ovvio - la sua impronta ma che egli vuole "comune", cioè da svolgere insieme con gli altri vescovi.
Diciamo subito che, per gli addetti ai lavori, la comunicazione di ieri è interessante perché dice l'idea che il nuovo presidente ha della struttura Cei. Intanto non la vuole più spessa di quanto gli statuti prevedano, e in ogni caso la declina nei termini di un servizio non solo «pastorale», ma anche «flessibile» ed «essenziale» rispetto all'«inalienabile» responsabilità dei singoli vescovi nelle loro Chiese. D'altra parte, la fase dello sviluppo, per la Cei, oggi «può ritenersi sostanzialmente compiuta» sia sotto il profilo organizzativo sia nel rilievo pubblico della stessa conferenza: si tratta ora, dopo la stagione quasi fondativa seguita agli Accordi di revisione del Concordato e al «balzo» compiuto dalla stessa Cei nel periodo ruiniano, di continuare sulla rotta delineata con scioltezza e dinamismo.
È possibile però leggere questo primo testo del neo-presidente secondo tre coppie di concetti, o "attenzioni", che probabilmente dicono qualcosa del suo interiore programma di governo.
Continuità e novità. È il tempo stesso scelto per l'avvicendamento nella carica a dire più di tante parole il contenuto di una vera continuità con l'azione precedente, che Bagnasco si impegna ad «assumere» e a «sviluppare». E che, anzi, difende: «il mio arrivare ora alla guida della Cei mi induce a testimoniare la preoccupazione per nulla politica, ma eminentemente pastorale che ha mosso ieri e muove oggi i vescovi» italiani. All'«amato» cardinal Ruini egli tributa l'onore che merita, ma senza complessi. L'aveva, d'altro canto, già detto: a Genova come a Roma, sarò me stesso. Le novità non mancheranno, come non mancano nel confronto tra le precedenti prolusioni (più panoramiche) e quella odierna (concentrata su alcune fondamentali questioni).
Spiritualità e collegialità. Due registri, questi, che emergono come in filigrana da tutto il documento, eppure anche esplicitamente argomentati. La coscienza di ciò che significa essere successori degli apostoli, in riferimento alla Pasqua del Signore e dunque all'annuncio di un'invincibile speranza; la preghiera come attività primaria del vescovo, insieme alla celebrazione dell'Eucarestia e l'adorazione della stessa; la Chiesa che è madre premurosa verso tutti, ma per questo anche maestra nell'indicare le vie della salvezza: questi i pilastri dell'azione personale e collegiale dei vescovi. Il nostro è un compito, dice, di cui rispondiamo personalmente ma che ci sollecita insieme. Insieme anche ai nostri sacerdoti, «primi e carissimi collaboratori», e ai laici il cui compito è «grande e indispensabile».
Attaccamento a Pietro e responsabilità verso l'Italia. Monsignor Bagnasco fa propria l'elaborazione del carattere peculiare della Chiesa che è in Italia. «La Provvidenza ha disposto che fossimo i testimoni ravvicinati e dunque in qualche modo privilegiati della missione pontificale; che avessimo da godere di una premura assidua da parte di Pietro e di un magistero particolarmente sollecito nei nostri confronti». E infatti, che il presidente della Cei sia non eletto ma nominato dal Papa è non una minorità, ma la conseguenza di un fatto che ha riscontro anzitutto nell'«accorrere inesausto» del popolo italico alla sede petrina. Di qui l'assunzione specifica, che compie oggi Bagnasco come ieri hanno fatto i suoi predecessori, nei riguardi di tutto il magistero papale, non a caso incastonato nei punti nevralgici della prolusione. Scaturisce da questa coscienza la responsabilità indeclinabile che la Cei avverte nei riguardi del nostro Paese e delle sue emergenze. Prima delle quali la famiglia, che va «difesa», «aiutata», «tutelata», «valorizzata», anche rispetto ad iniziative di legge inaccettabili a livello di principi e pericolose sul piano sociale. In questa cornice, Bagnasco annuncia per i prossimi giorni la famosa "nota", di cui da settimane si parla, e incoraggia il laicato in quel dinamismo volto al bene comune di cui è prova la manifestazione del prossimo 12 maggio.
Ma qui siamo già a domani.

Avvenire, 27 marzo 2007


Parla meno di Ruini: stessi princìpi, toni più soft

di Paolo Rodari

Voci di corridoio davano nei giorni scorsi il nuovo presidente della Cei, Angelo Bagnasco, preoccupato perché le parole che la Chiesa è chiamata e sarà chiamata a pronunciare in merito ai temi di più stretta attualità vengono sovente interpretate con toni di troppo smaccata chiusura nei confronti del mondo cosiddetto laico, quasi che le parole “dialogo” e “comprensione” non fossero più ritenute esistenti all'interno dell'azione della stessa Chiesa.
E, in effetti, questa preoccupazione è risuonata nella prolusione che ieri pomeriggio il successore del cardinale Ruini alla guida dell'episcopato italiano ha tenuto in occasione dell'apertura del suo primo consiglio permanente come presidente della Cei, un consiglio dai contenuti forti in quanto è proprio dai lavori romani che si chiuderanno il prossimo giovedì che dovrebbe uscire il testo definitivo dell'attesissima “Nota sui Dico e la famiglia” rivolta sia fedeli che soprattutto ai politici cattolici.
Un testo che - lo si apprende dalla chiusura della prolusione di ieri - verrà coniato dopo un dialogo franco e aperto fra tutti i vescovi che partecipano al consiglio permanente, da coloro che sono ritenuti più intransigenti come Scola, Caffara, Sepe e lo stesso Ruini, fino a quelli ritenuti di posizioni più accondiscendenti come Antonelli, Tettamanzi, Poletto, Papa, Monari, Forte, Miglio e Ghidelli.
Bagnasco ha infatti esplicitamente chiesto all'opinione pubblica di dare «la giusta rilevanza al comunicato finale (verrà pubblicato giovedì, ndr) di questo consiglio in quanto resoconto di un qualificato incontro collegiale della nostra conferenza». Come a dire: la “Nota sui Dico e la famiglia” e, in generale, tutte le prese di posizione in favore della famiglia fondata sul matrimonio e tutte quelle avanzate contro la legalizzazione delle coppie di fatto, saranno decise insieme, collegialmente, dal presidente della Cei, dai vescovi e dai cardinali che partecipano al consiglio permanente, tenendo conto delle posizioni dei vescovi che pur non partecipando al consiglio formano l'insieme dell'episcopato italiano.
Bagnasco voleva - e così è stato - rimanere saldo sui princìpi più volte ribaditi dal suo predecessore e, negli ultimi mesi, da papa Ratzinger, usando tuttavia uno stile che potremo definire più soft, meno d'impatto e soprattutto cercando di parlare a nome di tutti i vescovi, nessuno escluso.
Il risultato è stata una prolusione meno lunga di quelle che teneva Ruini (soltanto otto pagine) priva di parole riferite strettamente alla politica interna ed estera, all'economia e alla situazione sociale del paese e con un solo riferimento - di poche righe - all'Europa per ribadire la necessità del riconoscimento pubblico delle radici cristiane del continente. Parole, queste ultime, esplicitate soltanto in cinque righe ed evidentemente inserite dopo aver ascoltato la dura reprimenda papale ai vescovi europei ricevuti in udienza lo scorso sabato in Vaticano.
Certo, in merito al disegno di legge sui Dico, la linea della dottrina della Chiesa è mantenuta salda grazie al giudizio di Bagnasco che reputa il ddl «inaccettabile sul piano dei princìpi» e «pericoloso sul piano sociale ed educativo», ma è in termini generali che l'insieme della sua prolusione mostra il tentativo di dare una nuova impronta di governo all'episcopato italiano.
Un'impronta che si potrebbe definire così: salda sui princìpi, collegiale nelle decisioni, più soft nello stile espositivo dei contenuti.
Sulla modalità di governo della Cei si era giocata nei mesi scorsi una battaglia a distanza tra coloro che nell'episcopato italiano desideravano una guida meno accentratrice e coloro che invece ritenevano opportuno il contrario.
Tra le due tendenze - la prima in un certo qual modo “sponsorizzata” dalla segreteria di Stato vaticana, la seconda dalla leadership uscente della Cei - era prevalso un compromesso, con la decisione di nominare successore di Ruini l'arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, nome più prestigioso dei vescovi Papa, Cacucci, Corti e Monari ma non così d'impatto come i cardinali Scola e Caffarra.
Ieri il neo presidente Cei ha mostrato bene la volontà di porsi nel mezzo. Egli ha riaffermato la totale fedeltà al pontefice, la legittimità che la Chiesa difenda i valori fondamentali come l'unione sacramentale tra uomo e donna (in questo senso ha ribadito il suo “sì” al Family Day e alle associazioni che lo hanno voluto e promosso).
Ma, insieme, Bagnasco ha voluto imprimere un suo proprio carattere e stile alla modalità di esposizione di questi contenuti, insistendo parecchio sul fatto che la Cei è una «struttura di servizio» alla quale concorrono singolarmente tutti i vescovi sparsi nelle diocesi della penisola.Non solo, è forte l'insistenza di Bagnasco sul fatto che la Chiesa parla in favore dell'uomo, di ogni uomo: «Poiché ha a cuore l'umanità intera, la Chiesa a tutti si rivolge cosciente del dono ricevuto per il bene di tutti». E in questo senso quando la Chiesa parla non vuole testimoniare una preoccupazione «politica», «ma eminentemente pastorale». Benineteso, anche con Ruini le cose stavano in questo modo, ma la traduzione che soprattutto negli ultimi tempi l'opinione pubblica ha fatto delle sue parole è andata nella direzione opposta, con le ripetute accuse di ingerenza della Chiesa nelle cose dello Stato.
Ieri pomeriggio, dopo le parole di Bagnasco, buona parte di un certo mondo politico ha reagito alle parole pronunciate da Bagnasco circa i Dico con sdegno e accusando la Chiesa ancora una volta di ingerenza e un'atra parte ha giudicato le stesse parole come una bocciatura dell'azione governativa.
Eppure, qualche novità rispetto al passato la prima prolusione di Bagnasco da capo della Cei l'ha portata e non è detto che già il prossimo giovedì il comunicato finale del consiglio permanente non ne porti altre altrettanto significative.

Il Riformista, 27 marzo 2007

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